Medio Oriente: il piano di Trump per una pace dei cimiteri

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20 Ottobre 2025

Da "Lutte de classe" n°251 - Novembre 2025

Il lunedì 13 ottobre dopo la firma di un accordo siglato a Sharm el-Sheikh, in Egitto, tra il governo israeliano e Hamas sotto l'egida degli Stati Uniti, è stato istituito un cessate il fuoco a Gaza.

Trump ha presentato l'accordo come l'inizio di una "pace permanente" in Medio Oriente, "per la prima volta in 3000 anni". Ma per il momento è, tutt'al più, una tregua che non dà alcuna garanzia di essere meno fragile delle due precedenti. La prima, alla fine di novembre 2023, era durata una settimana e aveva permesso lo scambio di 81 ostaggi israeliani contro 240 prigionieri palestinesi. La seconda, dal 19 gennaio al 2 marzo 2025, aveva consentito la liberazione di 30 ostaggi israeliani e doveva costituire la prima fase di un processo di negoziazione. Ma il governo israeliano vi aveva posto fine bruscamente, riprendendo i bombardamenti, rilanciando un'offensiva terrestre su larga scala e procedendo a un blocco totale dell'enclave di Gaza per diverse settimane per ridurre la sua popolazione alla fame. Lungi dal garantire una pace ininterrotta, nulla assicura che l'attuale cessate il fuoco non sfoci in una ripresa della guerra come i due precedenti.

Verso l'istituzione di un protettorato americano?

Per ottenere questo accordo, Trump ha costretto Netanyahu ad accettare alla Casa Bianca, davanti alle telecamere di tutto il mondo, ciò che aveva rifiutato il giorno prima alla tribuna dell'ONU. Per garantirsi da qualsiasi ripensamento Trump ha inviato il suo segretario di Stato e suo genero alla riunione del governo israeliano convocata per discutere la firma del testo negoziato in Egitto. Prova, se ce ne fosse bisogno, che a Netanyahu era necessaria l'approvazione del suo protettore americano per potersi dedicare al massacro degli abitanti di Gaza per due anni.

In sostanza, il piano di Trump è in linea con quelli negoziati negli ultimi due anni. Così Antony Blinken, ex capo della diplomazia americana sotto Joe Biden, ha dichiarato il 2 ottobre: "Si tratta essenzialmente del piano che abbiamo elaborato nel corso di molti mesi e che abbiamo più o meno lasciato in un cassetto per la nuova amministrazione".

Il piano attuale prevede che il territorio di Gaza sia amministrato da un comitato palestinese apolitico, ancora da definire e da istituire, guidato da un consiglio di pace presieduto dallo stesso Trump e di cui potrebbe far parte l'ex primo ministro britannico Tony Blair. Gli Stati arabi, in particolare l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar, sarebbero invitati a partecipare all'amministrazione di Gaza e, in modo specifico, al finanziamento della sua ricostruzione.

Il controllo dell'enclave palestinese sarebbe assicurato da una forza internazionale, senza sapere chi la costituirebbe e senza alcun calendario definito . È stato annunciato l'invio di 200 soldati americani nella regione, ma Trump ha assicurato che nessuno di loro entrerà a Gaza. In attesa dello schieramento di questa forza ancora da chiarire, l'esercito israeliano continuerebbe ad occupare più della metà dell'enclave palestinese. In realtà questo piano significa stabilirvi un protettorato guidato dagli Stati Uniti, coamministrato da Israele e dagli Stati arabi, e in cui i palestinesi non avrebbero nessuna rilevanza.

Un conflitto creato dalle grandi potenze coloniali

Sembra che i dirigenti del mondo imperialista non trovino altra soluzione che tornare, in una forma leggermente diversa, alla politica coloniale condotta alla fine della prima guerra mondiale, quando il Regno Unito e la Francia si erano diviso il controllo degli Stati nati dallo smembramento dell'Impero ottomano. Ma per dare un aspetto più accettabile alla loro politica di brigantaggio, si erano fatti attribuire dalla Società delle Nazioni, l'antenata dell'ONU, dei mandati su questi nuovi Stati, con il compito di condurli all'indipendenza in attesa di condizioni mature. Fino ad allora, questi mandati davano loro il diritto di stabilirvi la propria amministrazione e di schierarvi delle truppe. Per consolidare il loro dominio, le potenze mandatarie alimentarono gli scontri tra le popolazioni, talvolta creati da loro stessi. In Palestina, in linea con la politica intrapresa durante la guerra mondiale, le autorità britanniche favorirono il rafforzamento delle organizzazioni sioniste, che rivendicavano la creazione di uno Stato ebraico. Sotto lo slogan "Una terra senza popolo per un popolo senza terra", il movimento sionista si presentava apertamente come portatore di un progetto coloniale che si prefiggeva l'obiettivo di cacciare le popolazioni locali suscitando, così, la loro opposizione. Era proprio questo il piano dell'amministrazione britannica, che poteva porsi come arbitro di un conflitto che aveva contribuito a far nascere e giustificare, così, il mantenimento della sua tutela sulle popolazioni ebraiche e arabe.

Indebolito dalla seconda guerra mondiale, il Regno Unito dovette rassegnarsi a evacuare la sua amministrazione e le sue truppe. Ma la sua politica del "divide et impera" diede origine, in questa regione come in molte altre parti del suo impero coloniale, a un conflitto che continua a produrre effetti devastanti.

Lo Stato israeliano, gendarme dell'ordine imperialista

Dopo la seconda guerra mondiale, a loro volta gli Stati Uniti, nuova potenza dominante nella regione, hanno proseguito la politica di alimentare le divisioni tra i popoli. In particolare, hanno scelto di sostenere lo Stato di Israele contro gli Stati arabi, di cui alcuni dirigenti cercavano di affrancarsi dalla tutela delle grandi potenze occidentali e si rivolgevano quindi all'Unione Sovietica. Tale politica permetteva anche a questi leader arabi di trovare sostegno in una popolazione in cui le idee antimperialiste riscuotevano grande consenso in quel periodo. Salito al potere in Egitto nel 1952 a seguito di un colpo di Stato, Nasser divenne, per diversi anni, la figura principale di quel nazionalismo arabo che pretendeva di porre fine al dominio ereditato dall'epoca coloniale. Attaccando l'Egitto nel giugno 1967, durante la guerra dei Sei Giorni, Israele diventò il braccio armato dell'imperialismo. Il conflitto israelo-arabo serviva gli interessi degli Stati Uniti, che non avevano alcun motivo di cercare di porvi fine. Con Israele, avevano un alleato ancora più affidabile poiché questo, rispetto ai suoi vicini, aveva un bisogno vitale della protezione americana, del suo aiuto militare e finanziario.

Ma per far prevalere i propri interessi, gli Stati Uniti hanno bisogno altresì di appoggiarsi ad altri Stati, in grado anch'essi di svolgere il ruolo di gendarmi della regione. Questo è stato. a lungo, il caso dell'Iran dello Scià. Le monarchie petrolifere, in particolare l'Arabia Saudita, sono state tra i loro fedeli alleati fin dalla loro nascita. Dopo la morte di Nasser nel 1970, il suo successore, Anwar Sadat, ha riportato l'Egitto nell'orbita degli Stati Uniti. Oggi questo paese è il secondo beneficiario degli aiuti americani, dopo Israele. Per avere alleati nel mondo arabo, quindi, gli Stati Uniti devono tentare di preservare l'immagine di arbitri che cercano di trovare una soluzione al conflitto israelo-palestinese, rimproverando un po' i governi israeliani quando esagerano, ma in ogni caso, senza costringerli a modificare radicalmente la loro politica nei confronti dei palestinesi.

La soluzione dei due Stati

Da cinquant'anni, ogni inquilino della Casa Bianca ha affermato di avere il proprio piano di pace per il Medio Oriente e si è dichiarato sempre favorevole a una "soluzione dei due Stati", promettendo così la creazione di uno Stato palestinese, del resto previsto nel piano dell'ONU del 1947. Gli accordi di Oslo del 1993, firmati a Washington dal primo ministro israeliano Rabin e dal leader dell'OLP Arafat alla presenza del presidente americano Clinton, sono stati il passo più significativo in questa direzione. È stata istituita un'amministrazione, l'Autorità palestinese, con il diritto di gestire il territorio di Gaza e parte della Cisgiordania. Ma i leader israeliani non sono stati mai intenzionati realmente a riconoscere uno Stato palestinese a tutti gli effetti. A loro avviso, l'Autorità palestinese doveva limitarsi a svolgere il ruolo di ausiliaria di polizia in grado di far accettare alla sua popolazione il perpetuarsi dell'occupazione israeliana.

Da parte loro, gli Stati Uniti non hanno mai minimamente pensato di costringere lo Stato israeliano a riconoscere uno Stato palestinese. In nessun caso si sono impegnati per impedire lo sviluppo della colonizzazione in Cisgiordania, che costituisce una progressiva annessione di questo territorio. Alla sua maniera, più originale rispetto ai suoi predecessori, Trump ha assunto lo stesso atteggiamento. Dopo aver adottato il programma dell'estrema destra israeliana proponendo la creazione di una Riviera a Gaza e la deportazione dei suoi abitanti, oggi si dichiara contrario all'annessione dei territori palestinesi. A sua volta, ha persino evocato la creazione di uno Stato palestinese, certamente cautamente e come una prospettiva molto lontana.

Quale futuro per Gaza?

A breve termine, se la guerra non riprenderà, è prevista la costituzione di una nuova amministrazione palestinese che escluderà ufficialmente Hamas. L'integrazione di rappresentanti dell'Autorità palestinese le garantirebbe un sostegno politico. La presenza del suo presidente Mahmud Abbas alla firma dell'accordo in Egitto, dimostra che questi è disposto a prestare la sua collaborazione a tale operazione. Gli Stati arabi, chiamati a supervisionare e finanziare questa amministrazione, recupererebbero, così, una buona posizione rispetto a uno Stato israeliano spinto dal suo protettore americano a moderare le proprie ambizioni regionali.

Così Trump potrebbe tentare di rilanciare il "processo di normalizzazione" inaugurato dagli accordi di Abramo, firmati durante il suo primo mandato, nel settembre 2020, tra Israele, Bahrein e gli Emirati Arabi Uniti. Con questo processo, gli accordi prevedono un chiaro impegno di questi Stati a cooperare, in particolare economicamente, con Israele, relegando così ufficialmente la questione palestinese in secondo piano. Nei mesi successivi, anche il Sudan e il Marocco hanno "normalizzato" le loro relazioni con Israele e l'Arabia Saudita si apprestava a seguirli. Solo quando il 7 ottobre 2023 è scoppiata la guerra a Gaza questo riavvicinamento è stato interrotto.

Quindi, i dirigenti degli Stati arabi possono trovare un interesse nell'applicazione del piano Trump. Essendo integrata nella nuova amministrazione di Gaza, anche una minoranza di palestinesi può ottenere il diritto di accedere a privilegi, certamente ridotti, ma commisurati a ciò che possono sperare le classi dirigenti dei paesi poveri. Anche lo stesso Hamas potrebbe entrare a far parte di questa futura amministrazione. Non appena è entrato in vigore il cessate il fuoco, il 13 ottobre, i miliziani di Hamas - si stima che abbia potuto schierare 7.000 uomini armati - sono usciti dai loro sotterranei e hanno iniziato a riprendere il controllo di Gaza, giustiziando i palestinesi segnalati come membri di bande che avevano collaborato con Israele. Ma Hamas ha voluto anche dimostrare a tutti gli abitanti e ai potenziali oppositori che rimane il padrone di Gaza. Trump ha appoggiato questa brutale ripresa del controllo, rispondendo a un giornalista: "Vogliono risolvere i problemi, lo hanno detto apertamente e hanno il nostro consenso per un certo periodo". 

Successivamente, il presidente americano ha moderato le sue dichiarazioni, affermando che Hamas doveva smettere di uccidere persone. Ma, in realtà, Israele e Stati Uniti hanno affidato la gestione della popolazione di Gaza a Hamas tra il 2007 e il 2023. Quindi potrebbero continuare a farlo, purché non sia troppo evidente. Per quanto le riguarda, l'organizzazione islamista vi è altrettanto disposta. Hamas non è stato sradicato, contrariamente a quanto proclama Netanyahu, e forse potrà conservare il ruolo di guardiano dei palestinesi di Gaza che gli è stato riconosciuto dai leader israeliani durante questi 16 anni. Ma la popolazione palestinese ha pagato le sue scelte politiche con due anni di guerra devastante, le cui conseguenze avranno ancora ripercussioni in futuro, anche se la guerra non riprenderà.

Da ottobre 2023, il territorio di Gaza è stato completamente devastato. Più di 67.000 palestinesi hanno perso la vita, centinaia di migliaia sono stati feriti. Oltre il 90% delle abitazioni è stato danneggiato o completamente distrutto. Ospedali, scuole, università e tutte le infrastrutture più indispensabili - centrali termiche, impianti di fornitura e depurazione delle acque - sono stati distrutti, costantemente presi di mira dai bombardamenti. Sebbene prima dell'inizio della guerra la Striscia di Gaza fosse fortemente dipendente dalle importazioni, gran parte del suo sostentamento proveniva dall'agricoltura e dalla produzione alimentare interne del territorio. Ma oggi, nel nord e nel centro di Gaza, dove si praticava la maggior parte dell'agricoltura, vaste aree di terreno sono state devastate.

La popolazione israeliana sotto la minaccia dell'estrema destra

Anche la popolazione israeliana ha pagato a caro prezzo questi due anni di guerra, la più lunga che il Paese abbia mai conosciuto. L'intera vita sociale è stata sconvolta dalla mobilitazione dei riservisti, che, in alcuni casi, sono stati richiamati più volte nel corso dell'anno. Diverse centinaia di israeliani hanno perso la vita: a gennaio, l'esercito ha stimato di aver avuto 900 morti e 6.000 feriti. Molti sono rimasti traumatizzati da ciò che avevano visto e, a volte, anche da ciò che avevano fatto, dopo il ritorno da Gaza perché la barbarie di una guerra segna sempre tutti coloro che vi prendono parte.

La maggior parte di coloro che hanno manifestato negli ultimi mesi per la fine della guerra hanno indicato Netanyahu come responsabile della politica di escalation bellica condotta negli ultimi due anni. Sebbene ne sia eminentemente responsabile, Netanyahu stesso subiva la pressione dell'estrema destra che imponeva le sue scelte. Alle elezioni del novembre 2022, i partiti ultranazionalisti hanno ottenuto il 10% dei voti. Netanyahu ha bisogno dei loro deputati per avere la maggioranza alla Knesset e per mantenersi al potere. Molti di loro siedono nel suo governo, occupando in particolare il ministero delle Finanze e quello della Pubblica Sicurezza, il che permette loro di rafforzare l'audience, la loro influenza nella polizia e di accelerare fortemente la colonizzazione.

Questa estrema destra è stata alimentata dalla politica dei governi israeliani dal 1948, che ha creato uno stato di guerra permanente contro gli Stati arabi e i palestinesi. Una tale politica non poteva che rafforzare il razzismo e le correnti ultranazionaliste all'interno della popolazione israeliana. Ma soprattutto la politica di colonizzazione condotta nei territori occupati dopo la guerra del 1967, nella parte orientale di Gerusalemme, in Cisgiordania e a Gaza, ha avuto un ruolo decisivo in questa evoluzione. Tutti i governi israeliani l'hanno tollerata, compreso quello di Rabin, e talvolta l'hanno palesemente incoraggiata. Queste colonie, dove oggi vivono più di 600.000 persone, hanno fornito una base militante e numerosa ai movimenti favorevoli all'annessione dei territori occupati e all'espulsione dei palestinesi. I coloni attaccano i palestinesi per appropriarsi delle loro terre in Cisgiordania, ma manifestano anche in Israele, dove compiono incursioni contro gli arabi che vi vivono, cercando di rendere impossibile qualsiasi convivenza. L'estrema destra ha acquisito un peso crescente nell'esercito israeliano. Secondo un giornalista di Haaretz, quasi il 30% dei coscritti reclutati nelle unità di combattimento appartiene al sionismo religioso, il 13% dei comandanti di compagnia sono coloni religiosi.

L'estrema destra minaccia sempre più di attaccare tutti i suoi oppositori, considerati nemici interni, e di imporre un regime autoritario, chiaramente segregazionista nei confronti dei palestinesi, compresi gli arabi israeliani, che rappresentano il 20% della popolazione del paese. Una tale evoluzione è il risultato della politica di oppressione condotta contro i palestinesi - poiché è vero che un popolo che ne opprime un altro non può essere libero - e può generare solo nuove guerre sempre più lunghe e sanguinose.

Per una federazione socialista dei popoli del Medio Oriente

Il piano Trump non darà nessuna pace duratura perché rappresenta solo un nuovo episodio nella lunga serie di interventi delle grandi potenze che hanno creato e alimentato il conflitto arabo-israeliano. Nessuna soluzione potrà essere trovata in un sistema imperialista che, in tutto il mondo, mette i popoli gli uni contro gli altri per poterli dominare tutti. L'unica opportunità per le popolazioni della regione, israeliana e araba, è una lotta comune per abbattere i diversi regimi che le opprimono.

La classe operaia è la sola a non avere alcun interesse a mantenere gli attuali confini, poiché non ha nessun privilegio, né sociale né nazionale, da difendere. Lottando per porre fine allo sfruttamento e a tutte le forme di oppressione, essa è l'unica in grado di offrire un futuro diverso. Solo la classe operaia può costruire un'organizzazione economica il cui obiettivo sia quello di soddisfare i bisogni della maggioranza e porre fine alla povertà e al sottosviluppo in cui il capitalismo mantiene le popolazioni della maggior parte del mondo. I popoli della regione potranno coesistere pacificamente solo con la formazione di una federazione che riconosca a tutti pari diritti, senza oppressione, senza sfruttamento: cioè una federazione socialista dei popoli del Medio Oriente. Solo i partiti e un'Internazionale comunisti rivoluzionari possono fare di una tale prospettiva un obiettivo di lotta per milioni di sfruttati, e contribuire alla loro realizzazione è un compito urgente.

20 ottobre 2025