Da "L'Internazionale"
Nel suo rapporto annuale sui diritti dei lavoratori nel mondo, la Confederazione internazionale dei sindacati (Ituc) scrive che siamo in presenza di "una crisi globale grave e in peggioramento per lavoratori e sindacati". Una situazione che è peggiorata in tre regioni del mondo su cinque. L'Europa e il continente americano segnano il peggioramento più marcato dal 2014. Sui 151 paesi esaminati, la Confederazione ha constatato un "forte aumento delle violazioni dei diritti fondamentali, tra cui l'accesso alla giustizia, il diritto alla libertà di parola e di riunione e il diritto alla contrattazione collettiva". Inoltre, il diritto di sciopero è stato violato nell'87% dei paesi.
Una politica anti-operaia in tutti i suoi aspetti
Anche in Italia sono evidenti gli effetti di questa guerra mondiale del capitale contro i lavoratori.
Limitandosi ai fatti più recenti, riportati dalla stampa, abbiamo visto il moltiplicarsi di aggressioni fisiche, ad opera di datori di lavoro o di loro scagnozzi nei confronti di operai, nel corso dei loro picchettaggi. Il caso più recente è avvenuto a Prato, l'ultimo 16 novembre, quando i padroni di diverse ditte, con sede all'interno di un centro commerciale per vendite all'ingrosso, sono usciti in strada per aggredire, coadiuvati da una ventina di energumeni, gli operai che protestavano contro le condizioni di lavoro. Anche in altre località, si sono moltiplicati negli ultimi tempi in tutti i casi in cui gli operai cercano di ottenere condizioni di lavoro più accettabili. Spesso a organizzare queste lotte sono i sindacati di base. Le richieste dei lavoratori sono semplicemente quelle di rispettare i contratti collettivi invece di lavorare 10 o anche 12 ore al giorno sette giorni su sette. È da sottolineare che il modo con cui vengono trattati dalle imprese è completamente illegale, ma la Giustizia tarda, e molto, a prendere i provvedimenti opportuni contro gli imprenditori. Nell'ultimo caso di Prato, però, tra gli aggrediti c'erano anche due agenti della Digos. Lo Stato non può dire, questa volta, di non sapere chi fossero gli aggrediti e chi gli aggressori! Il fatto che i padroni siano cinesi e gli operai pachistani ai commentatori reazionari suggerisce l'idea che "è un fatto che riguarda gli immigrati", a noi suona come una conferma che le nazionalità non c'entrano: in ognuna di esse ci sono sfruttati e sfruttatori. E i lavoratori italiani devono stare dalla parte dei secondi.
Quanti sono gli operai sfruttati oltre i limiti legali e contrattuali in Italia? Naturalmente non ci sono numeri precisi, ma in quella che viene classificata "economia sommersa" che, secondo i dati dello stesso ministero dell'Economia e delle Finanze, rappresenta un giro d'affari di più di 180 miliardi, 217 secondo l'Istat, ci rientrano senz'altro, almeno in parte, i casi come quello di Prato. In tutto, un decimo del Pil italiano è generato dal lavoro nero.
I settori più coinvolti, oltre ai servizi alla persona, sono l'agricoltura, le costruzioni, il tessile e il commercio all'ingrosso e al dettaglio. Indagini recenti, che hanno coinvolto famosi marchi della moda, illustrano come il lavoro effettuato in condizioni disumane sta alla base della "catena del valore" di griffe come Tod's, Piana, Valentino, Armani. Praticamente tutte le imprese che costituiscono "l'orgoglio del Made in Italy" sono coinvolte. Mentre i legali di queste aziende cercano affannosamente tutti i cavilli possibili per scagionare i titolari delle imprese da quello che accade nel mondo dei sub-appalti, il governo cerca di far passare leggi "ad hoc". È il caso di un emendamento in commissione industria del Senato, nel quadro di un disegno di legge di futura approvazione con il quale "si vuole sollevare le grandi case di moda dalla responsabilità per le violazioni lavorative commesse dai fornitori e dai sub-fornitori in fondo alla filiera. L'emendamento mira a semplificare le procedure per i committenti, consentendo loro di sottrarsi alle sanzioni previste dal Decreto 231/2001 se dimostrano di aver adottato modelli organizzativi e di controllo adeguati a prevenire i reati" (Corriere della sera, 16/10/25).
Se pensiamo al peso economico del lavoro illegale o semi-legale (ad esempio, far firmare al lavoratore un contratto che riguarda una categoria lavorativa diversa da quella a cui effettivamente appartiene e meno retribuita, farlo lavorare molte ore in più di quelle pattuite, non pagare gli straordinari, ecc.), ci rendiamo conto che l'insistenza della Lega di Salvini e degli altri partiti di governo nel rendere quasi impossibile una vita normale ai lavoratori immigrati, è funzionale agli interessi di settori importanti della borghesia "per bene" e magari anche "progressista". Un grande bacino di manodopera, che vive nel costante terrore di essere espulsa, di perdere l'abitazione, di non potersi ricongiungersi coi propri familiari, ecc. è una massa sicuramente più facilmente sfruttabile oltre ogni limite ed è questa, non a caso, che compone in grandissima parte gli ultimi anelli della catena del sub-appalto.
Fanno parte di questo disegno reazionario anche tutte le campagne "culturali", contro l'Islam, per la sorveglianza delle moschee, contro l'imposizione del velo e altro. Alla destra italiana fanno orrore i costumi islamici quando questo "sentimento" serve a perseguitare le famiglie più povere, ma se si tratta di commerciare e di fare profitti con gli Stati che si basano sulla legge coranica, tutte le diffidenze si sciolgono come neve al sole. Nel 2024 l'Italia ha esportato per quasi 8 miliardi di euro negli emirati arabi e per 6 miliardi e passa in Arabia Saudita. Export che è aumentato il primo semestre dell'anno in corso rispettivamente del 18% e del 5,7 %.
Ma la borghesia trova oggi il clima politico giusto anche per sviluppare la repressione aziendale e "semplificare" le procedure di licenziamento, come è il caso dei magazzini Pam. Qui la direzione aziendale ha sguinzagliato degli ispettori che, fingendosi clienti, nascondevano nel carrello dei prodotti senza passarli ai cassieri, per poi contestare loro la negligenza. Come se chi sta alla cassa avesse anche il compito di fare il poliziotto. Si tratta di una vera e propria provocazione, sulla base della quale sono già stati licenziati tre addetti alle casse a Livorno e a Siena, mentre 45 sono stati messi in mobilità a Campi Bisenzio. I licenziati hanno tutti una certa anzianità di servizio e due di loro sono delegati sindacali, pronti ad essere sostituiti con personale precario, pagato molto meno e molto più "malleabile", almeno nelle speranze della direzione.
Su un piano più generale, che evidenzia il desiderio del governo Meloni di rappresentare nel migliore dei modi gli interessi del padronato e la sua concezione delle libertà sindacali, è notizia recentissima che un gruppo di "esperti", addomesticati dalla coalizione di destra, stia lavorando per mettere a punto una nuova legge per ridurre ulteriormente il diritto di sciopero nel pubblico impiego, nei servizi e nei trasporti. Tra l'altro, si vorrebbe imporre l'obbligo della "adesione preventiva" dei lavoratori allo sciopero, per consentire alle varie amministrazioni interessate di predisporre le misure adeguate a far marciare la consueta attività. Nel frattempo è stato reso noto che la Commissione di garanzia sugli scioperi ha dato il via alle sanzioni contro il sindacato di base USB, per lo sciopero generale dello scorso 3 ottobre contro il genocidio palestinese.
Insomma, il quadro generale conferma in Italia quello che sta accadendo nel resto del mondo, dove non solo si peggiorano le condizioni materiali dei lavoratori, ma si vuole colpirne anche le capacità di organizzazione e resistenza.
La grande borghesia e lo Stato
Nel polo opposto della società, ovviamente, i problemi sono altri. La grande borghesia non ha mancato di far conoscere al governo che cosa si aspetta da lui. Emanuele Orsini, presidente della Confindustria, in occasione dell'Assemblea nazionale dei produttori d'acciaio, a Dalmine, in provincia di Bergamo, ha riassunto così la posizione degli industriali: "Insieme al governo dobbiamo costruire le condizioni per una sicurezza degli investimenti. Perché per noi è impossibile essere competitivi da soli". In caso contrario, ha avvertito, "noi imprenditori ci alziamo, prendiamo la valigetta e andiamo da un'altra parte, se le condizioni sono più favorevoli". Chiaro no? Agli industriali servono soldi pubblici per mandare avanti le loro imprese in Italia e, tra sgravi, incentivi, tassi vantaggiosi e altro, tutto deve far risultare conveniente continuare a produrre in Italia. Altrimenti "prendono la valigetta".
Le esigenze economiche delle grandi imprese si scontrano con le "ristrettezze" imposte dalle regole comunitarie che hanno già messo l'Italia sotto procedura d'infrazione per il deficit pubblico troppo elevato. Così, la lotta per accaparrarsi la più grande fetta possibile della spesa pubblica disponibile, in occasione della Legge di bilancio, si è fatta più acuta.
Un commento un po' fuori dal coro sulle pretese degli imprenditori lo ha fatto l'ex ministro dell'economia del primo governo Conte, Giovanni Tria, in un'intervista a La Stampa del 30 ottobre scorso; sulla necessità di investire e sul fatto che per farlo le imprese chiedono nuovi incentivi dice: "un imprenditore non deve per forza essere incentivato a investire, perché farlo rappresenta uno dei suoi principali doveri". Un'affermazione che sembra quasi ingenua, di una verità disarmante, tipo quella della bambina della favola di Andersen che grida: "Il re è nudo!".
La simbiosi tra capitale e Stato si è ormai così spinta avanti che sembra a tutti naturale che i padroni esigano denari pubblici per consentirsi di fare profitti.
Ma il ruolo dello Stato nel capitalismo italiano non si limita a fare da stampella alle grandi imprese attraverso aiuti e incentivi economici di vario genere. Tra le prime 10 società per azioni quotate alla borsa di Milano, 7 sono sotto controllo statale, sia attraverso il Ministero dell'economia e delle finanze, sia attraverso la Cassa depositi e prestiti.
Questo, ovviamente, crea dei legami del tutto particolari con gli organi del governo, con l'alta burocrazia, con i partiti parlamentari e le loro correnti. Poiché 6 di queste società hanno a che fare con l'energia, è chiaro che esiste un rapporto diretto tra i profitti di queste imprese, la politica economica, e la politica estera, del governo.
L'industria capitalistica, dunque, è a forte trazione statale, nel senso che i pochi colossi dell'industria sono quasi tutti statali o semi-statali. Gli enormi profitti di queste imprese sono distribuiti in varie modalità, a seconda che il loro azionariato sia totalmente o solo parzialmente statale. Da decenni, in ogni caso, si è formato tutto uno strato sociale, una borghesia di Stato, che si appropria di questi profitti attraverso forme indirette, come gli alti stipendi, i bonus e le mille diavolerie amministrative che un esercito di avvocati e commercialisti è in grado di inventarsi.
"Genialità" italiana?
Un altro degli aspetti caratteristici del capitalismo italiano è la piccola dimensione della stragrande maggioranza delle aziende. Secondo i dati della Unioncamere, nel 2025 ne risultano registrate 5 milioni e 63mila. Facendo due conti, ogni 11,6 abitanti c'è un'impresa. Ma il dato che esprime meglio questa frammentazione è quello delle grandi imprese (dai 250 dipendenti in su) che in Unione Europea sono lo 0,2% del totale ma occupano più di un terzo della forza lavoro e generano la metà del fatturato netto. In Italia questo tipo di aziende sono meno di 4.200, rappresentano lo 0,1% del totale e occupano il 23% degli addetti. Tutti questi dati sono da prendere con cautela perché variano sensibilmente secondo le fonti. In ogni caso è attendibile un ritratto del capitalismo italiano in cui le piccole e piccolissime unità produttive assorbono una quantità di manodopera ben superiore, in proporzione, a quanto avviene nei più grandi paesi europei.
Il dato del numero di imprese nasconde, per la verità, processi diversi. Uno di questi è il mascheramento di rapporti di lavoro che sono in realtà di dipendenza. Il "fare ditta", per molti lavoratori, è spesso un espediente per mantenersi il posto, con minori costi per i datori di lavoro. Questa è una delle spiegazioni della crescita del numero di imprese registrate negli ultimi 25 anni (+16%).
Per quanto ci interessa più direttamente, come militanti della classe lavoratrice, vediamo in questa frammentazione un ostacolo enorme all'organizzazione del proletariato e la base di tutta una serie di fragilità che trovano poi sbocco nei bassi salari, nel lavoro nero, nel numero quasi incredibile di morti sul lavoro.
I portavoce del mondo imprenditoriale continuano a ripetere che in Italia "è difficile fare impresa", ma i dati li smentiscono. La giustificazione ideologica che danno all'incongruenza delle loro affermazioni è, di solito, quella della "genialità" italiana. Per esempio, l'amministratore delegato di una società che fornisce consulenze e servizi alle piccole e medie aziende, la Verum Partners, ha dichiarato che "L'Italia si conferma una terra ricca di persone geniali e intraprendenti", ma "chi fa impresa deve superare ostacoli e difficoltà e va perciò sostenuto e supportato". E quest'ultimo è appunto il business della sua azienda.
Dunque, in Italia esistono e sono in aumento, tantissime piccole e piccolissime imprese. E questo avviene in un quadro di norme e di consuetudini burocratiche che ostacolano in ogni modo l'attività imprenditoriale. Questo sostengono tutti gli organi di stampa e tutti i rappresentanti del mondo imprenditoriale. La spiegazione di questo strano fenomeno sarebbe la "genialità" e lo "spirito d'iniziativa" degli imprenditori italiani. Una spiegazione che sconfina col razzismo, cioè con una specie di asserita superiorità razziale o nazionale degli italiani. Peccato che anche qui i dati smentiscano le ideologie, perché quelle che crescono di numero sono soprattutto le aziende di proprietà di immigrati, l'80% delle quali provenienti da paesi extraeuropei.
La verità è che esiste una specie di tolleranza istituzionalizzata all'inosservanza di norme tributarie, igieniche e di sicurezza del lavoro. Lo Stato, da decenni, "chiude un occhio". Perché? Perché le piccole attività, commerciali o di altro tipo, assolvono, e in numero non esiguo, la funzione di valvola di sfogo e di ammortizzatore sociale della disoccupazione. Un processo che comporta varie forme di "autosfruttamento" con orari prolungati oltre ogni ragionevolezza e la paura costante di essere stritolati dal "mercato".
Ma questa massa di "imprenditori" costituisce anche una categoria della popolazione facilmente arruolabile in tutte le campagne politiche condotte in difesa della "libertà d'impresa", contro la "burocrazia" e anche contro i sindacati. Tutti specchietti per le allodole per questa piccola borghesia marginale che spesso credendo di combattere lo strapotere del grande capitale finisce per divenirne massa di manovra.
Cresce la disuguaglianza sociale
Per quanto il governo Meloni si vanti di avere elaborato una legge di Bilancio a vantaggio dei ceti medi e delle fasce più svantaggiate della popolazione, dopo tre anni di governo, le tendenze principali nella distribuzione della ricchezza e nei livelli salariali si sono rafforzate.
Un termine di confronto sul peso economico delle classi più ricche è, ad esempio, l'aumento della ricchezza detenuta dai 71 miliardari italiani (quelli noti al fisco) nel corso del 2024, cioè 61,1 miliardi di euro (dati Oxfam). La legge di Bilancio vale in tutto circa 18,7 miliardi, cioè meno di un terzo di quanto, lo scorso anno, è aumentata la ricchezza di 71 persone ai vertici della classe borghese!
L'aumento della disuguaglianza è certificato dal confronto tra la quota di ricchezza del 10% più ricco e del 50% più povero nell'ultimo quindicennio. Abbiamo così che i più ricchi possedevano il 52,5% della ricchezza nel 2010 e ne possiedono il 60% oggi. La metà più povera, invece, è scesa dall'8,3% della ricchezza all'attuale 7,4.
La crescita prevista, misurata con il Pil varia, secondo le varie stime, dallo 0,6% a fine anno e nel 2026 (Ocse), stima, quest'ultima che nelle valutazioni della Commissione europea è 0,9. Percentuali modestissime, tutte sotto l'1%, che confrontate con quelle riferite all'eurozona, che pure rasentano la stagnazione, ne sono notevolmente inferiori. Si gonfia in questo modo l'effimera vanteria del governo secondo la quale "stiamo facendo meglio delle altre economie europee".
Questo non impedisce, come abbiamo visto l'aumento delle ricchezze della grande borghesia. Che nessuno ha intenzione di toccare. La cosa da sottolineare è che queste ricchezze, detenute da una minoranza della popolazione, sono ritenute intangibili. Ogni volta che si parla di patrimoniale si levano i più alti strilli contro i paventati provvedimenti "comunisti". Così è, per esempio, nel caso della proposta della Cgil di tassare con un "contributo di solidarietà" quell'un per cento della popolazione che possiede patrimoni superiori ai due milioni di euro. Da questa imposta, secondo Landini, segretario della Cgil, si ricaverebbero 26 miliardi l'anno da indirizzare verso sanità, sostegno ai non autosufficienti ed edilizia popolare.
Ma l'egoismo di classe della grande borghesia si estende al proprio stesso sistema, perché se non c'è esperto economico che non indichi negli "investimenti", nella "ricerca", nella "formazione dei giovani" la chiave del rilancio del capitalismo italiano, non si è levata una voce tra i miliardari e milionari italiani che annunciasse la propria disponibilità a cedere una piccolissima parte delle proprie ricchezze per finanziare tutte queste buone intenzioni. Eppure, soltanto i già citati 71 ricconi possiedono (dati ufficiali) 272,5 miliardi e la sola ricchezza in titoli azionari dei primi dieci possessori di azioni vale 116 miliardi. Per tutta questa gente, il "rilancio" dell'economia nazionale, cioè della loro economia capitalistica, lo devono pagare tutti gli altri!
La condizione economica dei lavoratori salariati è stata descritta in tutte le salse anche dalla stampa borghese. Basti ricordare qui che secondo l'Ocse tra il 2021 e il 2025 i salari reali italiani sono diminuiti del 7,5 per cento, "il calo più significativo dei salari reali tra tutte le principali economie". Secondo l'Istat, sul totale dei 23 milioni di occupati, il 10,02% sono working poor, cioè hanno un salario inferiore al 60% del reddito mediano nazionale. L'incidenza della povertà assoluta tra le famiglie con persona di riferimento occupata è dell'8,7%, ma sale al 15,6 quando la persona di riferimento è un operaio. La povertà, anche vista da questa angolazione, aumenta. Le famiglie indigenti, secondo la Caritas, sono aumentate del 43 per cento negli ultimi dieci anni. Oggi, più o meno un decimo della popolazione è povero.
Antonio Polito, in editoriale apparso sul Corriere della sera del 19 novembre scorso, sottolinea le conseguenze dei bassi salari sulle giovani generazioni. In particolar modo collega questo fatto alla fuga della forza lavoro dall'Italia. Scrive: "Sei milioni e mezzo di nostri connazionali vivono già oggi all'estero (un milione in più degli stranieri che risultano residenti in Italia); e il flusso cresce di continuo. Sono in massima parte giovani e giovani adulti. Una vera e propria fuga:+38% in un anno...Un infermiere in Italia guadagna 1,8 volte meno che in Germania, un medico 1,1 volte meno. Per ogni cento euro di stipendio di un nostro docente, l'equivalente tedesco ne incassa 211 (a parità di potere d'acquisto). Non ve ne andreste anche voi?". Polito si riferisce ai lavoratori più qualificati, ma nel conto totale c'è anche un 30% di giovani che non hanno nemmeno un diploma e trovano lavoro come operai.
Battersi per una società comunista
La crisi sistemica del capitalismo emerge da tutti i pori dell'organismo sociale. In ogni paese questa crisi si sviluppa in modo specifico perché specifico è il modo con cui il capitalismo vi si è sviluppato. Non si tratta più tanto di misurare gli indicatori economici ma di osservare per grandi insiemi il progressivo franare di tutto ciò che costituiva, fino ad alcuni anni fa, la base materiale di una certa tranquillità, di una certa fiducia nel futuro per la maggioranza della popolazione, almeno nei paesi più sviluppati. Dopo più di duecento anni di storia, dopo un susseguirsi di formidabili innovazioni nel campo della scienza e della tecnologia, il capitalismo industriale moderno non riesce nemmeno a garantire un livello di vita decente ai lavoratori. E tutto ci suggerisce che, lasciata a sé stessa, la situazione andrà a peggiorare. Su tutti gli altri aspetti che abbracciano la vita delle società umane la situazione non è migliore. La guerra è divenuta una minaccia permanente anche in Europa, mentre la distruzione, l'avvelenamento e la dilapidazione delle risorse naturali vanno avanti. Le montagne di analisi, ricerche e studi scientifici che mettono in luce il pericolo mortale che questa condotta rappresenta per l'umanità vengono nei fatti ignorati, quando non sbeffeggiati come allarmismi... ideologici.
Il comunismo come organizzazione sociale, come società umana pienamente padrona delle risorse disponibili e dei mezzi per suscitarne altre, come movimento che libera il lavoro umano dall'asservimento al capitalismo, è l'unica risposta possibile, l'unica speranza per non sprofondare nella barbarie. Bisogna dirlo apertamente, bisogna spiegarlo, bisogna che il tema della società comunista occupi un posto maggiore nella propaganda marxista rivoluzionaria.
19 novembre 2025