Medio Oriente: dopo la guerra del Libano (da "Lutte de Classe" n 99 - ottobre 2006)

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Medio Oriente: dopo la guerra del Libano
5 ottobre 2006

Dopo 33 giorni di guerra israeliana in Libano, dal 12 luglio al 14 agosto, la popolazione libanese, che ha lasciato sul campo almeno 1200 morti e migliaia di feriti, deve ormai trovare il modo di sopravvivere in un paese dalle infrastrutture distrutte e dall'economia paralizzata.

Eppure la guerra è ben lungi dall'essere stata una vittoria per Israele. Il suo esercito, considerato il più forte del Medio Oriente e finora mai vinto, non è riuscito a schiacciare Hezbollah e neanche a liberare i due soldati israeliani catturati da questo partito, la cui prigionia era stata il pretesto della guerra. I responsabili israeliani, chiamati in causa per la loro condotta della guerra, adesso si trovano nel loro paese di fronte ad una crisi di fiducia che dimostra quanto la loro politica porta in un vicolo cieco.

Questa situazione permette ad Hezbollah, per il solo fatto di essere riuscito a resistere ad Israele, di uscire dalla guerra con un credito rafforzato e di porre condizioni a rivali ed alleati. Ma questo maggiore credito dell'organizzazione fondamentalista islamica è ben lungi dall'essere una vittoria dei lavoratori e della popolazione povera del Libano. Sono i ceti più poveri che pagano più caro le conseguenze del conflitto, e con grande probabilità sono loro che le dovranno continuare a pagare.

L'ORIGINE DI HEZBOLLAH

I due principali movimenti sciiti, Amal e Hezbollah, hanno una comune origine nel movimento dei diseredati (Harakat al-maroumin), fondato nel 1974 dall'imam Mussa Sadr. Amal nacque come organizzazione delle milizie di questo movimento, col nome di Brigate libanesi di resistenza (Afuaj al-maqaumat al lubnaniya), il cui acronimo arabo Amal significa anche "speranza". Diretto da Nabih Berri dopo la scomparsa dell'imam Sadr, il movimento Amal si sviluppò durante la guerra civile libanese, dal 1975 al 1990, con l'appoggio della Siria intervenuta nel 1976 nella guerra col sostegno delle potenze imperialiste per impedire una vittoria dell'alleanza delle milizie dei palestinesi e della sinistra libanese unita nel Movimento Nazionale. Il regime siriano cercava un appoggio nella popolazione sciita per potere ostacolare l'influenza di questo raggruppamento.

In quanto ad Hezbollah ("partito di dio"), esso nacque nel 1982 da una scissione del movimento Amal, a cui si aggiunsero altri gruppi della tendenza fondamentalista islamica. Ebbe allora l'aiuto diretto dei "Guardiani della rivoluzione" presenti nel Libano, inviati dall'Iran allora aureolato dal prestigio della rivoluzione khomeinista. Il partito conquistò la fama di un movimento di resistenza nella lotta contro l'esercito israeliano dopo l'invasione del paese ad opera delle truppe di Sharon nel 1982, e anche nella lotta contro le forze occidentali intervenute poi per prendere il posto di quelle israeliane. L'appoggio datogli dall'Iran gli permetteva di criticare l'atteggiamento di Amal che, nel corso della "guerra dei campi" dal 1984 al 1987, fu utilizzato dalla Siria per combattere le milizie palestinesi. Dopo il 1987, l'esito degli scontri armati con Amal permise ad Hezbollah di cacciare la milizia filosiriana dalla periferia sud di Beirut e dal Libano meridionale.

I due movimenti presero a modello il sistema confessionale libanese. Questo sistema, istituito durante il mandato francese sul Libano mentre allo stesso tempo il paese veniva separato artificialmente dalla Siria, permetteva alla potenza coloniale di dividere per imperare. Esso poggiava sul fatto che la popolazione libanese si divideva tra parecchie religioni, essenzialmente i cristiani maroniti, i drusi e i musulmani sunniti e sciiti. Col pretesto di rispecchiare giustamente i rapporti numerici tra queste comunità, prevedeva una ripartizione delle responsabilità politiche ed anche delle cariche in funzione dell'appartenenza a questa o a quella religione. Ogni cittadino quindi doveva appartenere necessariamente ad una di queste e dipendere dalla comunità religiosa d'appartenenza per tutto quello che riguardava lo statuto personale. Inoltre, una preminenza veniva data ai cristiani, comunità maggioritaria all'epoca del mandato ed alleata privilegiata della Francia, in modo da assicurare l'ancoraggio del Libano alla potenza coloniale.

63 anni dopo l'indipendenza del Libano intervenuta nel 1943, questo sistema divide ancora la popolazioni libanese secondo la sua supposta appartenenza religiosa. Il numero dei seggi in Parlamento è sempre suddiviso secondo questa appartenenza, in funzione di criteri che risalgono all'epoca del mandato francese, nonostante i rapporti numerici siano cambiati: oggi i cristiani rappresentano probabilmente un po'meno del 40% della popolazione, gli sciiti almeno il 30%, i sunniti un po'meno ed i drusi il 6% circa. Ma comunque il fatto di definire un cittadino secondo la sua supposta appartenenza religiosa, l'importanza data in tal modo alle diverse istituzioni religiose, costituiscono un potentissimo ostacolo ad ogni tipo di modernizzazione della società. Contribuiscono a fare dei clan dominanti di ogni comunità religiosa i leader politici naturali di questa comunità. E tutti quelli il cui ruolo politico è dovuto a questa posizione si oppongono ad ogni tentativo di laicizzazione della società.

I due movimenti sciiti, Amal e Hezbollah, si adattarono anche loro al sistema confessionale. Per quanto essi, come molti altri, accennassero alla necessità di "abolire il confessionalismo politico", seppero utilizzarlo al meglio dei loro interessi.

MOVIMENTO DEI DISEREDATI?

Nella continuità dell'imam Sadr, Hezbollah e Amal si presentavano anche loro come il "movimento dei diseredati", assimilando i diseredati libanesi alla frazione sciita della popolazione. Così i dirigenti di Amal e di Hezbollah aggiungevano al loro confessionalismo un elemento di demagogia sociale. Eppure tale assimilazione è sbagliata. Se è vero che i musulmani sciiti spesso appartengono ai ceti più poveri, ovviamente ci sono poveri anche nelle altre comunità. Alcune regioni del Nord del paese quali quelle di Tripoli, dell'Akkar o di Sir Denniyé sono anche ben più povere e marginali del sud sciita. La divisione in classi della società libanese è ben lungi dal coincidere esattamente con le sue divisioni religiose, e la popolazione musulmana sciita comprende ovviamente dei borghesi, e addirittura una borghesia molto ricca, anche se meno della borghesia cristiana o musulmana sunnita.

Hezbollah in particolare non è un "partito dei diseredati", è un partito fortemente radicato nella piccola borghesia sciita e diretto dalla grande borghesia di questa comunità. La sua demagogia sociale, che risponde al bisogno di trovare una base nei ceti poveri, lo porta anche a poggiare su elementi più concreti. In modo simile ad altre organizzazioni fondamentaliste islamiche, quali l'Hamas palestinese o i Fratelli Musulmani egiziani, mantiene legami con la popolazione tramite istituzioni religiose, scuole e anche organizzazioni d'assistenza medica e sociale, o tramite la "fondazione dei martiri" che, sul modello iraniano, porta assistenza alle famiglie dei combattenti caduti. Queste relazioni in fondo non sono altro che legami di clientelismo ben classici: i borghesi di una comunità dedicano una parte della loro ricchezza a qualche beneficenza a favore dei poveri per ottenere in cambio il loro sostegno. Ma tali legami sono anche una necessità sociale e un'istituzione vera e propria in un paese in cui lo stato delega alle istituzioni religiose gran parte dei servizi essenziali. I ceti poveri, quindi, non hanno speranza di trovare un aiuto fuori dai legami con la loro comunità, che al tempo stesso fanno da veicolo al clientelismo di questo o di quel clan dirigente.

Sono innanzitutto questi legami, alimentati dal denaro della borghesia sciita e soprattutto dai finanziamenti venuti dall'Iran, a garantire l'influenza di Hezbollah nella popolazione sciita. Esiste, peraltro, un meccanismo simile nella popolazione musulmana sunnita che ruota attorno ai clan dirigenti di questa comunità, e in particolare al clan Hariri, così come nelle frazioni drusa e cristiana della popolazione libanese. Ma la rete d'influenza organizzata da Hezbollah ha permesso di utilizzare il confessionalismo nel modo più efficiente, tale da suscitare una visibile invidia da parte dei dirigenti delle altre comunità.

Hezbollah si preoccupò sin dall'inizio di non avere sul terreno sociale la concorrenza di organizzazioni di sinistra o facenti riferimento al movimento operaio, e in particolare di combattere l'influenza del Partito Comunista Libanese nella popolazione rurale del Libano meridionale. Hezbollah assassinó negli anni '80 una trentina di esponenti del Partito Comunista Libanese, pare per ordine diretto del suo capo Hassan Nasrallah.

Contemporaneamente il "partito di dio" cercava di affermarsi non solo come il partito di una comunità, bensì come un partito libanese con obiettivi politici a livello nazionale. L'occupazione israeliana del Libano meridionale gli permetteva di presentarsi come il partito della lotta contro l'occupante, contro cui organizzó azioni militari finché, nel 2000, la decisione israeliana di evacuare il Libano lo fece addirittura apparire come vincitore.

Hezbollah pertanto non disarmó le milizie, dichiarando che il pericolo israeliano rimaneva poiché l'esercito israeliano occupava ancora il piccolo settore montagnoso delle fattorie di Shebaa, ai confini di Israele, della Siria e del Libano.

Ma "il partito di dio" non puntava tanto a liberare le fattorie di Shebaa, che servivano piuttosto da pretesto, quanto ad affermarsi sulla scena politica interna del Libano grazie alla sua fama di "partito resistente". Esso ne ebbe ancora l'occasione quando le manovre delle potenze occidentali, dopo aver preso di mira l'Iraq nel 2003, interessarono di nuovo il Libano.

LA RISOLUZIONE 1559 DEL CONSIGLIO DI SICUREZZA

Nell'ambito della sua "guerra contro il terrorismo" l'amministrazione americana di George Bush volle farla finita con Hezbollah, inserito sia dagli Usa che da Israele nell'elenco delle "organizzazioni terroriste". Bush fece adottare dal Consiglio di Sicurezza la risoluzione 1559, con l'appoggio della Francia che, dopo il suo atteggiamento critico rispetto alla guerra contro l'Iraq, era desiderosa di ripristinare le relazioni con gli Stati Uniti.

Questa risoluzione, votata il 2 settembre 2004, chiedeva «il ritiro dal Libano di tutte le forze straniere ancora presenti» e anche «lo scioglimento e il disarmo di tutte le milizie libanesi e non libanesi». Essa aggiungeva che vi era la consapevolezza «delle imminenti elezioni presidenziali libanesi e dell'importanza che si tenessero elezioni libere e corrette conformemente alle leggi costituzionali libanesi elaborate senza influenze né interferenze straniere».

Ovviamente tale risoluzione prendeva di mira le truppe siriane presenti in Libano dal 1976 e le milizie di Hezbollah. Essa coincideva con le pretese dei dirigenti americani di rimodellare il Medio Oriente con l'introduzione della "democrazia", o meglio con l'installazione di governi che fossero direttamente al loro servizio. Ma la conseguenza era di travolgere il fragile equilibrio politico stabilitosi in Libano dopo gli accordi di Ta'ef del 1990 che avevano messo fine alla guerra civile.

Tale equilibrio poggiava su una certa coesistenza tra i vari clan della borghesia libanese, e in particolare tra i clan legati alla Siria e quelli più direttamente legati alle potenze imperialiste e all'Arabia Saudita, come quello di Rafic Hariri, primo ministro dal 1992 al 1998 e dal 2000 al 2004. Questi, tornato in Libano dopo aver fatto fortuna nel regno saudita negli affari immobiliari e nella prostituzione di lusso ad uso dei principi del regime, fu presentato come il ricostruttore del paese per i suoi progetti immobiliari faraonici, che lasciarono al Libano un debito di 40 miliardi di dollari ma arricchirono una bella schiera di suoi sostenitori. Legato anche alla Francia e addirittura grande amico della famiglia Chirac, Rafic Hariri nondimeno aveva mantenuto fino a quel momento un certo equilibrio nelle sue relazioni con la vicina Siria, dove non si era dimenticato di permettere ad un certo numero di clan di arricchirsi anche loro. La risoluzione 1559 interveniva per incitarlo a rimettere in discussione questo relativo equilibrio.

Il 3 settembre 2004, all'indomani del voto della risoluzione 1559, , il presidente della Repubblica filosiriano Emile Lahoud decise, nonostante le proteste dei fautori del clan Hariri che ambivano a sostituirlo, di fare prolungare il suo mandato alla camera dei deputati per altri sei anni. Poi, il 14 febbraio 2005, Hariri fu assassinato in uno spettacolare attentato di cui gran parte dei dirigenti politici e dei mass media, in Libano e all'estero, diedero subito la responsabilità ai servizi segreti siriani. Questo fu il punto di partenza della cosiddetta operazione "del 14 marzo", in riferimento alla grande manifestazione organizzata un mese dopo l'assassinio di Rafic Hariri. Un blocco politico si costituì, raggruppando intorno al clan Hariri tanto il dirigente druso Walid Jumblatt, capo feudale e dirigente di un cosiddetto Partito Socialista Progressista legato all'Internazionale Socialista, quanto l'estrema destra cristiana rappresentata dalle Forze Libanesi di Samir Geagea, mutamento del vecchio partito fascista delle Falangi. Il "blocco del 14 marzo" approfittò della repulsione di gran parte dell'opinione pubblica verso i metodi del vicino regime siriano di Bachar Al-Assad, per denunciarlo come responsabile di tutti i mali del paese e per chiedere, in nome dell'indipendenza del Libano, la partenza delle truppe siriane e ovviamente il disarmo di Hezbollah.

Tale operazione politica fu abusivamente chiamata "Intifada dell'indipendenza", non solo perché non aveva niente di comune con una rivolta come quella del popolo palestinese, ma anche perché l'indipendenza rivendicata rispetto alla Siria non c'era rispetto alle potenze imperialiste da cui l'operazione sembrava telecomandata. Ma a questo raggruppamento del 14 marzo ne rispondeva un altro. In effetti, Hezbollah fece anch'esso una dimostrazione di forza, raggruppando i suoi sostenitori in una manifestazione tanto imponente quanto quella del 14 marzo.

Così, pochi mesi dopo il voto della risoluzione 1559 si vedevano rinascere in Libano le condizioni di un confronto interno. Da un lato vi era il blocco del 14 marzo appoggiato dagli Stati Uniti e dalla Francia, e dall'altro un'alleanza tra i dirigenti filosiriani, Amal ed Hezbollah, esso stesso appoggiato dall'Iran.

Nel frattempo il Consiglio di Sicurezza si pronunciava sull'attentato contro Hariri, emettendo parecchie risoluzioni per l'istituzione di una commissione d'inchiesta, poi di un tribunale internazionale, e incriminando apertamente la Siria. Ma questa, con sorpresa di tutti, decideva rapidamente di evacuare le sue truppe dal paese, probabilmente perché i suoi dirigenti pensavano di potere dimostrare rapidamente che la loro influenza in Libano non era solo dovuta alla propria presenza militare.

Le elezioni legislative libanesi del giugno 2005 portarono in effetti alla vittoria del "blocco del 14 marzo", e in particolare della "Corrente del Futuro" partito costituito dal clan Hariri e ormai diretto da suo figlio Saad. Ma questa vittoria fu temperata dal successo di Hezbollah nelle regioni a maggioranza sciita. Di più, il generale cristiano Michel Aoun e la sua "Corrente Patriotica Libera" (CPN) riportarono anche loro un successo inaspettato, alleandosi ai clan cristiani filosiriani ed anche ad Hezbollah.

La "Corrente del Futuro" non poteva dominare completamente il governo libanese e fu costretta ad accettare un governo di coalizione comprendente ministri di Hezbollah e diretto da un primo ministro, Fuad Siniora, membro della Corrente del Futuro ma che appariva più aperto ai compromessi. Aoun e il CPL rimanevano fuori dal governo, tentando di conservare una posizione di arbitro tra i campi opposti ed accettando anche di firmare, nel febbraio 2006, un documento d'intesa reciproca con Hezbollah.

LA GUERRA ISRAELIANA

L'attacco israeliano contro il Libano s'inserisce in questo contesto. E' difficile credere che l'unico motivo dell'attacco sia stato il tentativo di liberare i due soldati catturati al confine il 12 luglio da Hezbollah, che voleva trarre vantaggio dalla cattura per ottenere la liberazione dei prigionieri libanesi d'Israele e attirare l'attenzione sui 10000 prigionieri palestinesi.

Il primo ministro israeliano Ehud Olmert, col dichiarare che il Libano doveva "pagare il prezzo" dell'azione di Hezbollah contro i soldati d'Israele, attuava immediatamente piani chiaramente prestabiliti dallo stato maggiore che comportavano bombardamenti aerei intensi per preparare un'invasione terrestre del Libano. Il suo ministro delle forze armate, il laburista Amir Peretz, pervenuto a questo posto con la fama di pacifista, si affrettò a smentirla approvando le operazioni più brutali. In pochi giorni, strade e ponti, porti e aeroporti, erano messi fuori uso, una gran parte delle infrastrutture del Libano venivano distrutte. Con un cinismo totale il governo israeliano si dichiarava non responsabile delle vittime civili, col pretesto che esse erano state pregate di evacuare le zone bombardate... mentre nel contempo le strade che avrebbero permesso di farlo venivano distrutte. Città del Libano meridionale venivano rasate al suolo, così come una parte della periferia sud di Beirut, e l'elenco delle vittime -uomini, donne e bambini- si allungava.

Fino a che punto tale attacco era concertato con i dirigenti americani? Esso comunque doveva beneficiare per un mese dell'aperta complicità degli Usa e delle altre grandi potenze, compresa quella, solo un po' più discreta della Francia. Allo stesso modo i regimi alleati dell'imperialismo come l'Arabia Saudita, l'Egitto e la Giordania, assistevano senza dispiacere all'aggressione israeliana.

Chiaramente Israele coglieva l'occasione di provare ancora una volta a modificare con la forza gli equilibri interni del Libano. Il governo israeliano, confortato dalle risoluzioni dell'Onu che ordinavano il disarmo di Hezbollah, poteva proclamare di non chiedere niente altro che la loro messa in pratica, ovviamente senza pensare nemmeno per un secondo che Israele avrebbe potuto iniziare ad applicare le numerose risoluzioni dell'Onu votate dal 1948, risoluzioni che lo riguardano, segnatamente quelle che raccomandano il suo ritiro dai territori occupati nel 1967.

L'attacco del luglio 2006 era in continuità con i precedenti tentativi israeliani, in particolare con l'invasione del Libano nel 1982, che finí all'epoca con il tentativo di insediare a Beirut un regime filoisraeliano eleggendo il falangista Bashir Gemayel alla presidenza della Repubblica, invasione segnata dai massacri dei palestinesi dei campi di Sabra e Shatila da parte delle milizie falangiste.

In effetti, insediare in Libano un regime alleato è una vecchia aspirazione dei dirigenti israeliani. Cosí, ad un Israele ebreo, alleato privilegiato dell'Occidente, potrebbe aggiungersi un Libano cristiano anch'esso alleato dell'Occidente e al tempo stesso vassallo d'Israele, aiutandolo a costituire una specie d'isola filo-occidentale di fronte ai vari stati arabi.

Questa aspirazione dei dirigenti israeliani, che viene regolarmente a galla, concorda ovviamente con gli obiettivi dell'imperialismo occidentale, in particolare quello americano, e oggi con i fantasmatici progetti di "Nuovo Medio Oriente" dell'amministrazione Bush, ma si scontra altrettanto regolarmente con la realtà. Così nel 1982 il presidente Bashir Gemayel eletto sotto protezione dei carri armati israeliani fu rapidamente assassinato e sostituito dal fratello Amin, che preferí evitare di apparire come una semplice creatura di Israele. Un trattato di pace israelo-libanese, firmato sotto pressione americana nel 1983, alla fine non fu ratificato dal Libano. Amin Gemayel si mostrò favorevole ad una politica che mantenesse le tradizionali relazioni del Libano con i suoi vicini arabi, la Siria in primo luogo.

Infatti, se la borghesia libanese non prova difficoltà a dimostrarsi filooccidentale, essa non vuole invece apparire come un'alleata d'Israele. Tra Israele e il Libano esiste innanzitutto la rivalità commerciale, finanziaria e politica che può separare due borghesie, rivali per il ruolo d'intermediario privilegiato dell'imperialismo in una stessa regione. D'altra parte, le buone relazioni con gli altri stati del Medio Oriente, ed innanzitutto con gli stati arabi, sono indispensabili alla borghesia libanese per garantire che le sue banche conserveranno il loro ruolo di centro finanziario della regione. La politica di un Libano che si mostrerebbe un alleato troppo aperto d'Israele potrebbe compromettere gran parte di queste relazioni, e per di più provocherebbe un conflitto, in seno al paese stesso, con la frazione della popolazione libanese che si sente parte del mondo arabo.

Nella guerra dell'estate 2006, le ambizioni di Israele si sono scontrate, ancora una volta, con realtà più forti.

I piani semplicistici dello stato maggiore israeliano si sono rapidamente dimostrati difettosi. Gli scientifici calcoli di militari fiduciosi della capacità dei bombardamenti aerei di sottomettere un paese si sono scontrati con un problema ben conosciuto: dopo i bombardamenti non si può occupare il territorio se non si mandano truppe di soldati in carne e ossa, esposti e quindi vulnerabili. Dopo alcuni giorni di esitazioni, i miliziani di Hezbollah hanno dimostrato di essere in grado di resistere e di infliggere perdite notevoli ai distaccamenti dell'esercito israeliano entrati in Libano. I morti e i feriti dell'esercito israeliano, aggiungendosi ai danni causati nello stesso Israele dai lanci di razzi di Hezbollah, hanno cominciato a scuotere l'opinione pubblica israeliana e a minare il sostegno di cui godeva il governo. Dopo un mese, diventava necessario porre fine ad un'operazione militare i cui risultati apparivano sempre più lontani da quelli promessi dai generali nei loro proclami.

IL CONFLITTO CONGELATO... PROVVISORIAMENTE?

Questa situazione ha permesso al Consiglio di Sicurezza dell'Onu di votare una risoluzione che chiedesse la fine dei combattimenti. Israele e gli Stati Uniti, in cerca di una via d'uscita, non vi si opponevano più. La risoluzione 1701 dell'11 agosto, mettendo sullo stesso piano gli attacchi di Hezbollah e l'offensiva militare d'Israele, prevedeva il ritiro delle forze israeliane entrate nel Libano meridionale, sostituendole man mano con l'esercito libanese e con le forze dell'Unifil, la Forza d'Interposizione in Libano delle Nazioni Unite, presente dal 1978 ma che doveva essere rafforzata per l'occasione. Così, l'esercito israeliano, non essendo riuscito a schiacciare Hezbollah, doveva passare il testimone a queste forze che, a loro volta, venivano incaricate di vigilare che "il partito di dio" non intraprendesse più azioni contro Israele.

Anche se la risoluzione ricorda platonicamente che è necessario «instaurare una pace globale, giusta e durevole nel Medio Oriente» le sue misure concrete equivalgono innanzitutto a sancire l'aggressione israeliana. Essa prevede di impedire l'entrata in Libano di armi destinate ad Hezbollah, ma non prevede di controllare, per esempio, i rifornimenti militari destinati all'esercito israeliano, neanche le bombe a frammentazione di cui esso ha fatto largamente uso nonostante il divieto di questo tipo di munizioni. E se viene previsto di stabilire una zona di sicurezza dal lato libanese del confine per impedire le azioni di Hezbollah, ovviamente non si prevede di stabilire tale zona dal lato israeliano per impedire una nuova offensiva da questa parte.

Così, le potenze imperialiste che partecipano all'Unifil, essenzialmente Italia e Francia, danno il loro aiuto ad Israele per congelare la situazione sul terreno, forse nell'attesa che esso decida una nuova offensiva, peraltro minacciata regolarmente dai dirigenti israeliani. Se ciò dovesse accadere, le truppe dell'Unifil non servirebbero a nient'altro che a constatare il passaggio dell'esercito israeliano e ad esprimere il loro rammarico, proprio com'è avvenuto ad ogni precedente incursione israeliana nel Libano.

CONDOLEEZZA RICE RINGRAZIA LA SIRIA

Per ora, sembra piuttosto che Israele e gli Stati Uniti cerchino di raggiungere i loro obiettivi con altri mezzi. Così, delle informazioni sono trapelate a più riprese dai negoziati in corso, tramite intermediari, tra Israele ed Hezbollah per ottenere la liberazione dei due soldati israeliani catturati, in cambio di quella di prigionieri libanesi e palestinesi in Israele.

Quanto ai dirigenti degli Stati Uniti, per loro l'offensiva israeliana di quest'estate è stata ancora una volta l'occasione per lanciare invettive contro Siria e Iran, rendendoli responsabili di tutti i conflitti del Medio Oriente. In realtà essi sanno benissimo che una collaborazione è possibile con questi regimi. Lo si è visto in seguito ad un attentato con autobomba avvenuto il 12 settembre contro l'ambasciata degli Stati Uniti a Damasco, attentato che sarebbe stato difficile attuare senza qualche consenso da parte dei servizi siriani. La segretaria di Stato americana Condoleezza Rice ha allora ringraziato in modo sorprendente il regime siriano per avere protetto l'ambasciata americana, aggiungendo solo che «la prossima tappa per la Siria è di fare la sua parte nella guerra contro il terrorismo».

Nello stesso modo Bush, che non aveva esitato a minacciare un intervento militare contro l'Iran se avesse persistito nel volersi dotare di un'industria di arricchimento dell'uranio, si è detto favorevole a «risolvere il problema con la diplomazia», approvando le potenze europee impegnate in un negoziato su questo punto con Teheran, nel quale Chirac e la Francia si erano offerti ancora una volta come intermediari.

Impantanatosi in Iraq, l'imperialismo americano sa benissimo che non puó lanciarsi in una nuova avventura, questa volta contro l'Iran. I dirigenti imperialisti sanno benissimo che, invece di un'azione militare, potrebbero facilmente trovare accordi con regimi come quelli della Siria o dell'Iran che d'altra parte denunciano costantemente. Quindi non mancano di esplorare queste possibilità in modo più o meno felpato, il che non gli impedisce di tornare periodicamente ai discorsi aggressivi, e addirittura alle minacce militari.

L'attacco israeliano in Libano si inseriva chiaramente nella strategia dell'imperialismo americano, in quanto colpendo Hezbollah si poteva puntare il dito contro la Siria e l'Iran. Se è possibile che per qualche tempo si veda l'imperialismo Usa tornare ad una tattica un po' meno aggressiva, questo non significa che esso non ricorra in futuro nuovamente alle minacce, perfino all'aggressione, quando questo gli apparirà necessario e possibile.

UN INSUCCESSO PER ISRAELE

Nei confronti del Libano i dirigenti israeliani continuano ad agitare minacce. Dopo aver ritirato l'esercito solo di malavoglia, essi danno ora l'annuncio, come ha fatto un ministro laburista, che «la guerra potrebbe riprendere». Non lo si può escludere, anche se queste dichiarazioni mirano probabilmente ad accontentare innanzitutto lo stato maggiore ed a fare buona figura nei confronti di una parte dell'opinione pubblica, che dai risultati della guerra trae la conclusione che Israele non ha ancora colpito abbastanza forte.

Per il momento i dirigenti israeliani sono costretti a constatare che i risultati della loro politica guerrafondaia in Libano sono ben lungi dall'essere un successo.

Se Israele, come aveva preteso, fosse riuscito a vincere Hezbollah in pochi giorni, i dirigenti libanesi della "Corrente del futuro" e i loro accoliti l'avrebbero ringraziato segretamente. Ma non è stato così. La brutalità dell'aggressione, la sua ampiezza e anzitutto la sua durata hanno messo in difficoltà quei dirigenti libanesi che potevano essere più favorevoli a tale aggressione. L'esercito israeliano non ha solo colpito i combattenti di Hezbollah, ma l'insieme delle infrastrutture del paese e la sua popolazione. Gli appelli del governo libanese di Fuad Siniora, lui stesso membro della "Corrente del futuro", ad un intervento delle grandi potenze per fermare il massacro, si sono rivelati vani durante lunghe settimane. Questi dirigenti, sempre così preoccupati di mettere in evidenza le loro buone relazioni con l'imperialismo, non hanno neanche ottenuto in cambio qualche mossa in loro favore fin tanto che Israele e gli Stati Uniti erano decisi a proseguire l'offensiva. I dirigenti francesi stessi, sempre pronti a proclamarsi protettori del Libano, si mostravano distanti e comunque impotenti.

All'impotenza del governo libanese sul piano diplomatico si sommava una sua inazione sul piano interno. Non solo l'esercito libanese si mostrava incapace di dare una minima risposta all'aggressione israeliana, ciò che comunque si sapeva. Ma organizzare l'aiuto alla popolazione, l'accoglienza dei 900 000 profughi del sud cacciati via dai bombardamenti, la distribuzione dei beni alimentari e prendere misure elementari di difesa civile e di sopravvivenza, tutto questo appariva l'ultima preoccupazione del governo e dello stato libanese. Di fronte a ciò, la resistenza armata di Hezbollah, ma anche la sua logistica, che in molti casi permetteva ad esso di fornire l'aiuto che non veniva dal governo, sono apparse come il massimo dell'organizzazione e della dedizione ai bisogni della popolazione.

Certamente Hezbollah è stato indebolito militarmente dall'attacco israeliano, nel quale sembra che abbia perso più di un centinaio di combattenti. Adesso esso ha bisogno di tempo per ricostituire le sue forze militari. Per questo, i suoi dirigenti non solo hanno accettato l'arresto dei combattimenti, ma si sono poi mostrati attenti a non lasciare più apparire i loro combattenti, in modo da non lasciare nessun appiglio ad una provocazione israeliana.

Hezbollah è invece uscito dalla battaglia politicamente rafforzato, con una maggiore popolarità non solo nella popolazione sciita, ma anche al di fuori di essa, tra tutti quelli che dichiaravano che "Hezbollah, almeno, si batte". Il suo capo Hassan Nasrallah cerca di trarre vantaggio da questa situazione.

GLI OBIETTIVI POLITICI DI HEZBOLLAH

Nel corso del grande comizio tenutosi nella periferia sud di Beirut il 22 settembre, Hassan Nasrallah, uscendo dalla clandestinità in cui si era nascosto durante i combattimenti, ha celebrato quella che chiama «la vittoria divina, storica e strategica» riportata dal suo partito. Nel dichiarare che non si tratta di disarmare Hezbollah come gli è stato chiesto, egli ha affermato che «la prima tappa normale è costruire uno stato forte, giusto, che protegga la patria e i cittadini». Ed ha aggiunto che allora «la questione delle armi si risolverà da sola, senza che ci sia bisogno di ricorrere al tavolo dei negoziati», mentre «parlare di disarmare la resistenza (...) con questo stato, questo regime, questo potere, significa lasciare il Libano scoperto di fronte ad Israele affinché possa uccidere, saccheggiare e fare quello che gli pare». Infine, ha dichiarato, «fintanto che esistono sfide gravi che l'attuale governo non può affrontare, l'unica via d'uscita è la costituzione di un governo d'unione nazionale».

Il capo del "partito di dio" ovviamente vuole trarre vantaggio dal suo successo, stimando che il suo prestigio, accresciuto nei confronti del ruolo poco glorioso degli uomini della "Corrente del futuro", gli permette di chiedere più posti nel governo libanese per il proprio partito, e anche per i suoi alleati come Aoun e il CPL. A questo negoziato sugli incarichi di Hezbollah nel governo se ne aggiunge un altro, quello per la sua presenza negli organi dello Stato, ed innanzitutto nell'esercito.

L'esercito libanese, di cui la risoluzione 1701 ha chiesto il dispiegamento nel sud del paese e il rafforzamento dei mezzi, sarebbe ben incapace di fare fronte, non solo ad Israele ma anche ad Hezbollah. Questo esercito, che non è niente altro che una polizia e non ha mai utilizzato le armi che contro la popolazione libanese in caso di manifestazioni, è in effetti diviso secondo le stesse linee di frattura confessionale riguardanti tutto il paese. Esso è composto da brigate che, come è noto, sono cristiane, sciite, sunnite e druse, e puó esplodere immediatamente in caso di conflitto confessionale, come è avvenuto nel corso della guerra civile del 1975-1990. Ed esploderebbe ugualmente nel caso in cui qualche generale gli chiedesse di agire contro Hezbollah per disarmarlo. E poiché tutti ne sono ben coscienti, Nasrallah fa sapere che ha una soluzione pronta, utilizzando eventuali compromessi: un'integrazione di combattenti di Hezbollah nell'esercito, il che ne aumenterebbe la componente sciita, attualmente piuttosto sottorappresentata.

Si vedrà in futuro se questa tattica porterà ad un nuovo equilibrio più favorevole ad Hezbollah, tramite tali compromessi "alla libanese". E' anche possibile, invece, che la situazione attuale sbocchi verso scontri interni, e addirittura in una nuova guerra civile. Infatti, di fronte ad Hezbollah il "blocco del 14 marzo" può scegliere il conflitto, a cui puó essere spinto dalle pressioni occidentali, francesi e americane e anche israeliane.

Qualunque sia questo futuro, si vedono quali obiettivi politici persegue Hassan Nasrallah: si tratta semplicemente di obiettivi di potere nell'ambito dello stato libanese. Come per la maggior parte dei dirigenti arabi, la battaglia contro Israele, l'evocazione della solidarietà con i palestinesi, i discorsi infiammati e radicali e, in questo caso, il coraggio dei militanti morti nei combattimenti, non sono per Nasrallah altro che mezzi per accedere al potere, forse al prezzo di fare i compromessi che ciò necessiterà con gli altri partiti, o addirittura con l'imperialismo e con Israele.

IL SUCCESSO DI HEZBOLLAH, QUELLO DI UN PARTITO REAZIONARIO

Comunque, il successo politico di Hezbollah alla fine della guerra non è per niente una vittoria per i lavoratori e per i ceti poveri della popolazione libanese. Il rafforzamento di questo partito borghese, dall'ideologia reazionaria, significa il rafforzamento della polizia del buon costume esercitata nelle regioni che esso controlla, tra l'altro contro le donne costrette a portare il velo e a rispettare i precetti islamici. Il rafforzamento di Hezbollah implica anche quello della sua dittatura sociale, contro le organizzazioni di sinistra, quello del suo controllo sui sindacati contro i lavoratori che potrebbero cercare di organizzarsi in modo autonomo.

In Libano, in particolare nelle regioni sciite, i lavoratori e le masse povere si ritrovano in un paese distrutto, di fronte alle sofferenze e ai danni della guerra, di cui il prezzo maggiore ricade su di loro. Per questa parte di popolazione gli indennizzi pagati da Hezbollah per le case distrutte non possono certamente costituire un compenso. Dopo la guerra, i contadini ritrovano campi che non possono più coltivare a causa delle munizioni inesplose, mentre i salariati subiscono un'ondata di licenziamenti massicci, il più spesso senza neanche un minimo indennizzo, a cui si aggiunge un aumento dei prezzi che ha già toccato il 100 o 150% in poche settimane. La borghesia, che spesso ha saputo approfittare della guerra, non intende sacrificare i guadagni in nome di qualche solidarietà con i poveri. Le masse, dal canto loro, si ritrovano a fronteggiare la borghesia senza difesa e senza organizzazione.

Il relativo successo ottenuto da Hezbollah tenendo testa ad Israele non è per nulla, in realtà, un aiuto al popolo palestinese. Le critiche che oggi si fanno sentire in Israele contro l'azione del governo potrebbero innanzitutto tradursi in un maggior sostegno a quelli che proclamano che bisognava agire ancora più brutalmente contro Hezbollah, contro gli arabi in generale e i palestinesi in particolare. Il governo israeliano, non essendo riuscito a fare una dimostrazione di forza convincente contro Hezbollah, adesso puó provare a farne una ancora più brutale contro i palestinesi che sono sotto il suo controllo. Esso accentua la repressione in Cisgiordania e a Gaza, affamate e messe sull'orlo della guerra civile dall'interruzione degli aiuti finanziari occidentali in seguito alla vittoria elettorale di Hamas.

Peraltro, gli spari di razzi contro Israele, le distruzioni e i morti che essi hanno causato, sono stati probabilmente popolari tra i palestinesi e le popolazioni libanesi bombardate, che si sentivano vendicate delle esazioni dell'esercito israeliano. Ebbene, queste azioni hanno colpito le popolazioni civili israeliane, tra cui si contano 43 morti oltre ai 116 militari israeliani uccisi durante il conflitto. Hanno anche spesso colpito i più poveri, compresi gli arabi israeliani, che non erano affatto responsabili della politica di Olmert e dello Stato Maggiore. Di più, il loro effetto non poteva essere che quello di respingere la popolazione israeliana dalla parte del governo e dei fautori di una politica di forza. Questi potevano trarre argomento dagli spari di razzi per dire con qualche credibilità che l'aggressione israeliana contro il Libano non era altro che l'azione di autodifesa di un paese pacifico attaccato da islamici sanguinari. Gli spari di Hezbollah su Israele non potevano che contribuire ad isolare quelli che in Israele volevano opporsi alla politica guerrafondaia del governo, mentre sarebbe stato determinante convincere i lavoratori e i ceti popolari israeliani che questa politica è contraria al loro interesse.

QUALE ANTIMPERIALISMO?

Oggi il risultato più chiaro di tutta la politica israeliana e imperialista è, ancora una volta, il rafforzamento di una tendenza fondamentalista islamica, come questo era già successo in gran parte del Medio Oriente e al di là, dall'Iran all'Algeria e dall'Egitto alla Palestina. Non c'è niente di che rallegrarsi, qualunque siano le pretese "antimperialiste" che questi movimenti affermano o che ad essi vengono attribuite.

Nel Libano, il Partito Comunista che da molto tempo ha abbandonato ogni pretesa ad una politica proletaria indipendente, si è unito ad Hezbollah nella sua resistenza all'esercito israeliano. Partecipando ai combattimenti al fianco del "partito di dio", un certo numero di suoi militanti ha perso la vita. Il PC libanese, che ha avuto in passato molti dirigenti assassinati da Hezbollah, giustifica questa scelta con la politica di "resistenza coerente" che verrebbe portata avanti dal partito di Hassan Nasrallah.

Un'esponente dell'Ufficio Politico del partito, Marie Debs, in un'intervista di questa estate, dava un attestato di benemerenza ad Hezbollah dichiarando che esso «ha avuto una forte evoluzione e si è costruito un radicamento in tutti i ceti della popolazione. Lavora a favore del progresso sociale dei ceti più poveri della società libanese, come facciamo noi comunisti». Ed aggiungeva: «naturalmente ci sono differenze importanti con noi: Hezbollah è un partito religioso, noi siamo un'organizzazione laica». Come se questo fosse solo un particolare senza grande importanza, addirittura una semplice questione di gusti.

In questo il PC libanese segue una corrente che attraversa tutta la sinistra araba e che ammira Hezbollah per il fatto che, per la prima volta, un movimento di guerriglia araba sia riuscito ad infliggere una sconfitta ad Israele. Gran parte dell'estrema sinistra, in Europa e in particolare in Francia, sembra seguire al passo questa corrente, celebrando la "resistenza" dell'organizzazione fondamentalista islamica e attribuendole un carattere "antimperialista".

L'insuccesso della guerra di Israele in Libano significa davvero un suo indebolimento nella capacità di minacciare i popoli della regione? Questo scacco politico dell'imperialismo modifica veramente il rapporto di forze a favore dei popoli del Medio Oriente? Questo non è sicuro. Anche se si verificasse un tale indebolimento, il rafforzamento di tendenze islamiche reazionarie, le cui rivendicazioni non hanno nessun carattere democratico e sociale, rischierebbe purtroppo di controbilanciare ciò che esso potrebbe portare di positivo per le masse sfruttate della regione.

Né Hezbollah, né Hamas, né i Fratelli musulmani, né i regimi siriano e iraniano rappresentano una politica antimperialista. Nessuno di questi sostiene di combattere il sistema imperialista per sostituirlo con un'altra organizzazione della società. Rappresentano tutt'al più delle frazioni della borghesia di questi paesi, che desiderano crearsi un posto migliore nell'ambito del sistema e ottenere dalle potenze imperialiste un piccolo posto al sole. Al tempo stesso si dimostrano capaci di instaurare delle dittature feroci contro le masse povere. Il fondamentalismo islamico puó allora fornire loro una copertura ideologica. Col proporre il ritorno ai cosiddetti valori della società tradizionale, esso puó fare da sostituto all'antimperialismo istintivo delle masse popolari. Lo sostituisce con un'opposizione a tutto quel che viene dall'Occidente, comprese le idee comuniste e rivoluzionarie proletarie.

Eppure sono queste, e solo queste, che potrebbero aprire una strada alla difesa degli interessi delle masse oppresse del Medio Oriente. Nella situazione inestricabile creata dagli interventi dell'imperialismo nella regione, queste masse sono di fronte ad una moltitudine di conflitti e ad un gran numero di frazioni e di regimi borghesi rivali. Ai lavoratori, alle masse povere, viene sempre intimato di scegliere questo campo o quell'altro, nazionale o micronazionale, o perfino confessionale come nel Libano, senza che mai alcuna di queste tendenze proponga ad essi di battersi veramente per i loro propri interessi.

E' vero che rispetto a queste varie forze non si può rimanere indifferente o equidistante. Non si può considerare l'imperialismo e i suoi agenti diretti come lo stato d'Israele alla pari dei partiti o persino dei regimi come quelli della Siria o dell'Iran ai quali si oppongono. Il fatto che questi regimi siano di fronte all'ostilità degli Stati Uniti li mette nella situazione di utilizzare a proprio vantaggio una parte dei sentimenti di opposizione all'imperialismo sempre fortemente presenti nelle masse popolari del Medio Oriente. Ebbene, i militanti rivoluzionari proletari, in particolare quelli dei paesi imperialisti, devono mostrarsi solidali con i popoli attaccati dall'imperialismo, qualunque siano i regimi che li capeggiano.

Al tempo stesso, è vitale preservare la possibilità per la classe operaia di lottare per i suoi interessi mantenendo la completa indipendenza politica. Ciò implica, in particolare per i militanti presenti in questi paesi, l'obbligo di non subordinarsi a questi regimi, frazioni e partiti borghesi. Infatti, tutti questi rimangono, senza eccezioni, nemici mortali delle classi sfruttate quando queste cercano di portare avanti i propri interessi.

La battaglia contro l'oppressione imperialista nella regione non può essere perciò separata dalla battaglia contro le varie borghesie locali che, in qualche modo, collaborano tutte a questa oppressione e allo sfruttamento.

E' necessario che i lavoratori e le masse popolari trovino la possibilità di lottare sul proprio terreno di classe, contro i loro comuni oppressori, superando le molteplici divisioni nazionali e confessionali, nonché i conflitti in cui sono coinvolti, dall'Iran alla Siria e all'Egitto, dal Libano ad Israele. Questo necessita una rinascita di veri partiti proletari, comunisti, rivoluzionari e internazionalisti, che non confondano la lotta di classe con l'accodamento alle organizzazioni islamiche reazionarie.