La situazione internazionale nel 2020

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30 ottobre 2020

Da "Lutte de classe" n° 212 - Dicembre 2020

(Testo approvato dal congresso di Lutte ouvrière di dicembre 2020)

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Introduzione

La crisi dell'economia capitalistica mondiale, che aggrava la guerra sociale condotta dalla borghesia contro la classe operaia, e rischia di sconvolgere anche i rapporti tra le categorie vittime dello stesso grande capitale, domina anche le relazioni internazionali. Inasprisce le rivalità tra le potenze imperialiste. Aumenta la pressione dell'imperialismo sui paesi poveri, ripristina o peggiora una moltitudine di tensioni tra nazioni, etnie e religioni.

La pandemia, pur illustrando a modo suo quanto l'umanità sia una stessa e identica entità, ha evidenziato tutti i difetti e le contraddizioni dell'organizzazione capitalistica della società. Ovunque c'è la stessa incapacità di gestire la pandemia se non accusando la popolazione di essere responsabile della sua diffusione, per nascondere le responsabilità passate e presenti dello Stato nell'inadeguatezza criminale delle risorse materiali e umane dei sistemi sanitari. Di fronte a un virus che non rispetta né confini né distanze, gli Stati nazionali reagiscono ognuno per se, alzando altre barriere invece di cooperare.

La dominazione imperialista sul mondo provoca costantemente, direttamente o indirettamente, la reazione dei popoli oppressi. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, non c'è stato praticamente un solo momento senza questo tipo di conflitto. Con la politica del dividere per imperare, le potenze imperialiste utilizzano e al contempo incoraggiano costantemente i conflitti nazionali, etnici e religiosi, quando non li creano. Questi conflitti, le cui origini spesso risalgono ad un lontano passato, sono continuamente riaccesi dalle rivalità tra le varie potenze imperialiste.

La crisi, l'impoverimento delle classi sfruttate, anche nei ricchi paesi imperialisti, e il rafforzamento delle idee reazionarie e xenofobe aggravano queste tensioni. La crescente tensione nelle relazioni internazionali degli ultimi anni dimostra come i conflitti locali possano portare a guerre generalizzate.

La guerra civile in Siria, scatenata nel 2011 dalla repressione di Assad contro il suo popolo, ha provocato reazioni a catena in tutto il Medio Oriente. Ha trascinato, tramite il gioco delle alleanze, potenze regionali quali Iran e Turchia. Ha portato all'intervento della Russia e al coinvolgimento di tutte le potenze imperialiste in un modo o nell'altro.

Il conflitto di quest'anno tra Azerbaigian e Armenia vede il crescente coinvolgimento della Turchia, che d'altra parte interviene anche nella rivalità tra i signori della guerra per il potere sulla Libia e le sue risorse petrolifere. La Grecia e la Turchia, sebbene membri della stessa alleanza militare, la NATO, sono sull'orlo di uno scontro militare per il controllo delle acque territoriali nel Mediterraneo orientale.

La guerra è una realtà sanguinosa in parecchie regioni vicine all'Europa. La paura della guerra fa già parte dell'angoscia delle masse popolari in molti paesi. Essa finirà per raggiungere le masse popolari degli stessi paesi imperialisti.

Per le masse popolari della Francia, le avventure militari del loro imperialismo nell'ex impero coloniale, con il pretesto della "lotta al terrorismo", appaiono ancora una minaccia lontana che non le riguarda molto, tanto più che vi si impegna un esercito di professione. Ma la sensazione di una catastrofe futura arriverà inevitabilmente con l'aggravarsi delle tensioni internazionali.

In modo completamente diverso oggi rispetto agli anni che hanno preceduto la seconda guerra mondiale, gli obiettivi proposti da Trotsky nel Programma di transizione ("La lotta contro l'imperialismo e la guerra") tornano attuali.

Nei paesi imperialisti, tra cui la Francia, i dirigenti politici non battono la grancassa del "secolare nemico", almeno per ora. Ma la "lotta al terrorismo" ha lo stesso ruolo. Le misure antiterrorismo adottate nel paese e gli interventi militari esterni sono legati e giustificati dalla "difesa della patria". Questa è una truffa. Per riprendere le parole del Programma di transizione, "con questa astrazione, la borghesia intende la difesa dei suoi profitti e dei suoi saccheggi".

Le numerose guerre locali in Asia e in Africa fanno ovviamente la fortuna dei trafficanti d'armi. Allo stesso tempo, le spese militari sono un barometro abbastanza accurato del peggioramento della situazione internazionale. "Le spese militari hanno raggiunto il livello più alto dalla fine della guerra fredda", dice il rapporto di un istituto internazionale specializzato.

Gli scontri locali fungono anche da terreno di addestramento per gli eserciti delle grandi potenze, se non direttamente, almeno attraverso i mercenari. La crescita del numero di mercenari e di eserciti privati sta seguendo la stessa tendenza delle vendite di armi.

Le alleanze militari che possono portare rapidamente a una guerra generalizzata non sono solo quelle ufficiali basate su trattati diplomatici. Ci sono anche quelle che collegano i venditori di cannoni e aerei dei paesi imperialisti ai loro clienti.

Lo Yemen, ad esempio, che non si trova nella sfera d'influenza diretta dell'imperialismo francese, è nondimeno un ottimo mercato per i suoi venditori d'armi.

Le alleanze si fanno e si disfano in Libia non solo a seconda dei rapporti di forza tra i signori della guerra, ma anche in base ai vantaggi commerciali che possono risultare dalle relazioni con le varie parti in guerra. La guerra civile in Libia coinvolge ben più paesi, dall'Egitto agli Emirati Arabi Uniti, di quelli che finora sono intervenuti direttamente sul territorio.

Il mondo capitalista è una polveriera. Le scintille sono già tante, ognuna delle quali potrebbe innescare reazioni a catena che potrebbero portare a una guerra che coinvolga le grandi potenze. Ciò potrebbe diventare la prima fase di una nuova guerra mondiale.

Due delle maggiori potenze mondiali, gli Stati Uniti e la Cina, sono giunte finora solo a scontri verbali. Tuttavia una guerra commerciale è già in corso. Per ora è frenata dall'interdipendenza tra l'economia americana e quella cinese, dovuta alla forte presenza di grandi società americane e più in generale occidentali in Cina. Mentre l'Occidente imperialista esporta capitali in Cina, la Cina esporta merci in Occidente. Metà dell'industria cinese lavorerebbe, in un modo o nell'altro, per l'esportazione. Si tratta di un'interdipendenza asimmetrica, essendo gli Stati Uniti una potenza imperialista, mentre la Cina rimane in gran parte un paese povero. Questa asimmetria non esiste solo in termini economici, ma si riflette anche al livello militare nella quantità e la qualità dei rispettivi armamenti.

Esistono già punti di attrito con implicazioni militari dirette. Il sostegno degli Stati Uniti a Taiwan, l'isola separata dalla Cina dopo la sconfitta nel 1949 di Ciang Kai-shek, che vi si rifugiò, è un affare di lunga data. È vero che nel 1978 gli Stati Uniti hanno riconosciuto la Repubblica Popolare Cinese. Tuttavia l'attività diplomatica americana, accompagnata da operazioni navali e vendite di armi, mostra la volontà degli Stati Uniti di considerare Taiwan come parte della cintura degli Stati, dalla Malesia al Giappone o alle Filippine, che sono alleati per arginare l'influenza cinese. Ciò minaccia l'accesso della Cina all'Oceano Pacifico e all'Oceano Indiano.

I minuscoli arcipelaghi del Mar Cinese Meridionale, i Paracels e gli Spratleys, sono tra i punti caldi del mondo, dove le navi da guerra della Cina e quelle degli Stati Uniti e dei loro alleati nella regione si incrociano e si osservano.

Non c'è ancora una dinamica del tipo che ha portato alla Seconda guerra mondiale, in cui principalmente due campi imperialisti si opponevano per il dominio del mondo. Ma gli Stati Uniti stanno già preparando il loro popolo ad un confronto con la Cina. Per Trump, anche il coronavirus è cinese, e la pandemia un atto di guerra! E questo non è solo un modo per fare dimenticare l'evidente incapacità del suo regime di combattere la diffusione del virus.

In Francia la "guerra al terrorismo", con le sue implicazioni internazionali, ha lo stesso obiettivo di "arruolare" la popolazione. I ripetuti appelli all'"unità nazionale", ampiamente condivisi da tutti i partiti borghesi dell'intero arco politico, mirano a questo obiettivo. Tutto questo si fa in nome della patria e della sua difesa, com'è tradizionale per giustificare le guerre dell'imperialismo, anche quelle più infami.

Con il peggioramento delle relazioni internazionali, i comunisti rivoluzionari dovranno denunciare sempre più spesso questo inganno. Al patriottismo borghese devono opporre l'internazionalismo operaio, che è parte integrante della prospettiva comunista.

La propaganda generale per l'internazionalismo è indispensabile, ma non è sufficiente. È necessario lottare quotidianamente contro la politica e il linguaggio stesso dei partiti borghesi che, al di là delle loro differenze, sono unanimi nel difendere il loro imperialismo. Tutti hanno l'obiettivo, che lo ammettano o meno, di abituare le masse popolari alle guerre già in corso o a quelle future.

Dobbiamo rifiutare l'"unità nazionale", che mira a nascondere la fondamentale opposizione tra gli interessi degli sfruttati e quelli dei loro sfruttatori, e che mira a subordinare i primi ai secondi. Dobbiamo rifiutare qualsiasi politica che contrapponga i proletari di un Paese a quelli di un altro, anche in una variante "sovranista".

Collegando i problemi posti dagli aspetti economici della crisi alle conseguenze militari, il Programma di transizione specifica la rivendicazione transitoria che ne risulta in modo lapidario: "Nessun programma di armamento, ma un programma di opere pubbliche". Lo si potrebbe aggiornare come segue: "Soldi per la costruzione di ospedali e per la formazione e l'assunzione di personale sanitario, non per l'industria delle armi".

La politica internazionale della borghesia è la continuazione della politica nazionale con altri mezzi. Una potenza imperialista come la Francia non può fare guerre giuste. Le guerre che sta già conducendo o in cui sarà coinvolta sono e saranno guerre imperialiste. L'unico modo di opporsi alle minacce di guerra che pesano sulle relazioni internazionali sta nel riprendere l'unica guerra giusta del nostro tempo: la guerra rivoluzionaria del proletariato per rovesciare il potere della borghesia. "Il nemico principale è nel nostro paese". Questa affermazione, che riassume il contenuto fondamentale dell'atteggiamento dei rivoluzionari comunisti, valido ai tempi di Karl Liebknecht, Lenin e Trotsky, rimane valida anche oggi.

Gli Stati Uniti

Con 225.000 morti, gli Stati Uniti sono il paese con il maggior numero di vittime al mondo. Una città come New York ha 24.000 morti, più della Lombardia e il triplo della regione di Parigi, pure più popolate. Oggi la pandemia colpisce anche le aree rurali, dove i pazienti a volte devono spostarsi da uno stato all'altro per un ricovero d'emergenza a causa della mancanza di posti letto.

Ci sono molte ragioni per questo disastro sanitario. Per mesi, per non danneggiare il suo bilancio economico, Trump ha negato la gravità della minaccia sanitaria. I governatori repubblicani hanno fatto lo stesso, negando qualsiasi lockdown prima di esservi costretti. Il fatto che più di 30 milioni di americani non abbiano un'assicurazione per la malattia, che le condizioni di lavoro nei mattatoi e nelle fattorie siano uno sfruttamento feroce, ha certamente giocato un ruolo. I lavoratori, gli operai, gli operatori sanitari, gli assistenti domiciliari, i più poveri, i neri, gli ispanici, sono tra due e tre volte più colpiti dei manager e dei più ricchi e pagano un prezzo pesante per questa strage. Già prima dei Covid, l'aspettativa di vita era scesa per tre anni consecutivi, un fatto eccezionale, forse dovuto alla crisi degli oppiacei. Mentre gli Stati Uniti hanno un PIL pro capite sette volte superiore a quello di Cuba, l'aspettativa di vita non è più alta e la mortalità infantile è più elevata. Questo è il prezzo pagato dalla popolazione per i profitti degli assicuratori privati e dell'industria medica e farmaceutica.

La crisi del Covid ha portato l'economia al collasso. Mentre il governo vantava la crescita e un tasso di disoccupazione particolarmente basso, il PIL è sceso del 5% nel primo trimestre e del 31% nel secondo. Mentre all'inizio di marzo c'erano 7 milioni di disoccupati, il numero è salito a 30 milioni alla fine di aprile, mentre altri milioni non hanno potuto iscriversi perché il sistema era intasato o perché non avevano diritto alle prestazioni. Da allora, con la ripresa economica, si sono creati nuovi posti di lavoro, che hanno contribuito al diffondersi dell'epidemia e quindi ad altre soppressioni di posti. Il tasso di disoccupazione, ufficialmente dell'8%, è stimato dal Presidente della Fed all'11%, e in realtà è più vicino al 27%, un tasso paragonabile a quello della Grande Depressione. Quella che è stata presentata come disoccupazione temporanea legata al Covid sta diventando disoccupazione permanente.

I tassi della Borsa invece hanno praticamente ritrovato la salute di prima della pandemia. Dopo un repentino calo a marzo, il Dow Jones e l'S&P 500 sono tornati ai livelli precedenti. Per quanto riguarda il Nasdaq, l'indice dei titoli di nuova tecnologia, ha raggiunto il massimo storico. Mentre le compagnie aeree, le compagnie di crociera e i parchi di divertimento non hanno buoni risultati, mentre migliaia di piccole imprese stanno crollando, la finanza trova rifugio nei Gafam, PayPal, Netflix, Tesla e Teledoc (medicina a distanza), oppure nelle multinazionali farmaceutiche, in attesa del grande premio che sarà il vaccino. Dopo il "Giovedì nero" di Wall Street del 1929, la borsa aveva messo 25 anni a ritrovare il livello precedente; nel 2020 ci sono voluti meno di sei mesi.

Il primo motivo dell'ottimismo degli speculatori è il sostegno dello Stato. Come altrove, il governo federale ha affrontato il crollo economico con la creazione massiccia di debiti. Non solo i tassi d'interesse sono praticamente nulli, ma la Federal Reserve ha ricomprato massicciamente i debiti di imprese che altrimenti sarebbero fallite. Il debito pubblico rappresenta oggi il 135% della ricchezza nazionale prodotta ogni anno; detto questo, questa percentuale era già passata dal 67% nel 2008 al 103% nel 2017; in altre parole, l'economia statunitense vive sempre più a credito, e questo non è una novità. Trump ha annunciato un piano di rilancio di 2.000 miliardi di dollari; Biden offre di più: 2 200 miliardi di dollari! Entrambi vogliono presentare la fattura alle classi lavoratrici.

Mentre i proprietari di immobili e di "prodotti finanziari" vedono il loro patrimonio salire alle stelle, la classe operaia diventa sempre più povera. Un quarto degli americani ora non è in grado di soddisfare il proprio fabbisogno alimentare e dipende dagli aiuti per mangiare. Il problema non è nuovo; è stato aggravato dalla crisi e dalla scomparsa di milioni di posti di lavoro in molti settori. Già in primavera, molte famiglie di lavoratori, incapaci di rimborsare il mutuo o di pagare l'affitto, si sono trovate sotto la minaccia dello sfratto dalle loro case, ricordando le drammatiche conseguenze della crisi del 2007-2008.

Politicamente, l'anno è stato segnato, a giugno, dopo l'assassinio di George Floyd a Minneapolis, da una larga mobilitazione contro il razzismo e la violenza della polizia. Questa protesta è stata massiccia, fino all'Alaska, e ha trascinato molti neri, ma anche bianchi antirazzisti. Ma col chiedere la riforma della polizia, si è trovata di fronte a una contraddizione insolubile nel contesto attuale: il capitalismo americano è stato costruito sulla schiavitù e sulla divisione razziale, e la polizia è uno strumento indispensabile al dominio di classe.

Mentre Biden e i democratici cercavano di cavalcare la rabbia per l'omicidio di George Floyd, Trump ha invece giocato la carta dell'opposizione frontale ai manifestanti, favorendo demagogicamente il razzismo contro i neri. In parecchie città, le milizie di estrema destra sono uscite allo scoperto, come a Portland nell'Oregon, a volte uccidendo manifestanti antirazzisti come a Kenosha nel Wisconsin, o col progetto di rapire una governatrice democratica nel Michigan. Questi gruppi sono molto minoritari ma godono del sostegno di una frazione del pubblico e perfino della Casa Bianca. Dopo la sconfitta di Trump, potrebbero vendicarsi sui neri. E se la crisi si aggrava e le condizioni sociali peggiorano, potranno svolgere un ruolo più importante, come forze ausiliare armate del capitale.

Se si conferma la vittoria di Biden, la borghesia può rimanere serena. Se misuriamo la sua posizione in base ai pagamenti ricevuti dai grandi capitalisti per la sua campagna elettorale, Biden ha addirittura battuto Trump. Biden è stato per quasi 50 anni un uomo politico servitore leale della borghesia. Come Trump, invoca la "produzione americana con posti di lavoro americani" e intende continuare il braccio di ferro con la Cina. Con Biden, la borghesia sa che, anche se il paese ha milioni di disoccupati in più, i soldi federali continueranno ad arrivare sui conti delle grandi imprese e il mercato azionario continuerà a prosperare.

Il Medio Oriente

I conflitti d'influenza, le conseguenze degli interventi armati delle varie potenze regionali e dell'imperialismo, fanno del Medio Oriente una zona di tensione permanente. Dallo Yemen alla Siria e alla Libia, le situazioni di guerra aperta o latente persistono e possono portare a conflitti sempre più violenti e più ampi. Ma è ora la crisi economica a soffiare sulle braci, rendendo insopportabile la situazione delle masse. Aumentano anche le tendenze bellicose dei vari regimi.

Dopo l'Iraq e l'Iran, quest'anno il Libano è stato teatro di un grande movimento popolare. Il ruolo particolare di questo paese, al centro delle transazioni bancarie e dei flussi finanziari regionali, gli ha permesso a lungo di mantenere una piccola borghesia relativamente benestante. Queste fonti si sono prosciugate, portando a una crisi economica tanto più violenta che i dirigenti del paese la volevano ritardare tramite combinazioni finanziarie. La fuga dei capitali ha portato alla caduta della moneta libanese e al rapido sprofondamento della maggioranza della popolazione nella povertà. La rivolta popolare, che trascende le divisioni religiose, ha preso di mira il sistema politico, la sua corruzione e la sua incapacità di gestire il paese con un minimo di coerenza, come dimostra anche la catastrofica esplosione del 4 agosto nel porto di Beirut. La demagogia di un Macron, che chiama i dirigenti libanesi a riformarsi, non può farci dimenticare che il Libano così com'è oggi è una creazione del colonialismo e dell'imperialismo francese. Quest'ultimo vorrebbe che rimanesse il fulcro della sua presenza in Medio Oriente. Le sue ingiunzioni per ristabilire la situazione finanziaria del Paese sono appelli ai leader libanesi affinché si mostrino capaci di far pagare il loro popolo, e di fargli sopportare il suo drammatico impoverimento.

Sotto Trump, il sostegno degli Stati Uniti alla politica del governo israeliano è diventato spudorato. Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale e l'insediamento dell'ambasciata americana in questa città, il riconoscimento della "legalità" degli insediamenti in Cisgiordania e l'annessione delle alture del Golan, sono un assegno in bianco dato alla politica israeliana del fatto compiuto. Per demagogia nei confronti dell'estrema destra e dei coloni in particolare, il governo di Netanyahu ha affermato la sua volontà di annettere formalmente una parte della Cisgiordania occupata. Ma tra la demagogia e la prassi c'è un divario, tanto più che tale decisione non riscuote l'approvazione di tutti negli ambienti dirigenti israeliani, tra l'altro quelli dell'esercito fra cui alcuni considerano che lasciare l'Autorità palestinese mantenere l'ordine nella parte del territorio che controlla sia l'opzione meno costosa. L'annessione inizialmente prevista per il primo luglio 2020 è stata respinta senza spiegazione, poi ufficialmente rinviata in cambio del riconoscimento ufficiale dello stato di Israele da parte degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein. Con questo accordo Netanyahu ha potuto evitare di mantenere la promessa fatta ai fautori di un grande Israele.

Da parte loro, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, ai quali poi si è aggiunto il Sudan, non si sentono più costretti ad affermare una finta solidarietà con la richiesta dei palestinesi di avere un proprio Stato. La normalizzazione delle loro relazioni con Israele è certamente più promettente dal punto di vista commerciale e finanziario, per non parlare del maggior sostegno che hanno potuto ottenere dagli Stati Uniti dopo la loro decisione. La maggior parte degli stati arabi considerano ora il regime di Teheran come il loro principale nemico e Israele come un possibile partner nella loro lotta contro l'Iran.

In realtà, il sostegno degli stati arabi ai diritti dei palestinesi è sempre stato puramente simbolico. Lo hanno affermato a lungo per non isolarsi dall'opinione delle popolazioni arabe, senza esitare ad impegnarsi in una sanguinosa repressione dei movimenti palestinesi quando minacciavano di destabilizzare i loro regimi. Durante il "Settembre nero" del 1970 in Giordania o durante la guerra civile libanese, sono stati gli stati arabi a fermare lo sviluppo delle organizzazioni nazionaliste palestinesi. Ciò ha aiutato Israele a rafforzare la sua posizione, e i suoi governi a negare al popolo palestinese qualsiasi riconoscimento dei suoi diritti.

Tuttavia, la politica israeliana si trova di fronte a una contraddizione. Col rifiutare qualsiasi compromesso con i palestinesi e col moltiplicare i fatti compiuti nei loro territori, essi rendono sempre più ipotetica la cosiddetta soluzione dei due stati. Ma annettere completamente la Cisgiordania significherebbe integrare a Israele una popolazione araba che potrebbe diventare più numerosa di quella ebraica, una popolazione che potrebbe non accettare all'infinito una situazione di apartheid. Come sempre dalla creazione di Israele, i suoi dirigenti continuano quindi a rifiutare qualsiasi regolamento del conflitto israelo - palestinese.

Ai margini della regione, l'interventismo della Turchia di Erdogan è una risposta alla grave crisi della sua economia. Dopo un periodo di relativa prosperità, i mercati che Siria, Iraq e Iran erano in grado di offrirgli si sono ristretti. Il prosciugamento dei flussi turistici e la crisi sanitaria vi stanno aggiungendo i loro effetti. La politica di prestigio di Erdogan ha portato a un peso del debito che il paese non è più in grado di sostenere. Ciò si riflette nella caduta del tasso di cambio, nell'impoverimento della maggioranza della popolazione, e nel discredito del governo. La sua risposta consiste in costanti gesti e interventi contro i curdi, in Siria, Libia e nel Caucaso, per non parlare delle denunce della Francia in nome della difesa dei musulmani. Il regime turco sta anche cercando di mettere mano su alcune delle ricchezze di petrolio e gas nel Mediterraneo orientale, e di rimettere in discussione la spartizione delle acque territoriali, anche se ciò significa rischiare una guerra con la Grecia. L'altro lato di questa politica è la tensione permanente all'interno della Turchia, i costanti arresti, la repressione e la denuncia di presunti complotti. È solo a questo prezzo che questo regime, che si sente minacciato, riesce a mantenersi.

In tutti i paesi del Medio Oriente, ma anche in quelli del Maghreb e nella Turchia, la crisi sanitaria ha aggiunto i suoi effetti a quelli di una crisi economica già catastrofica. Ha portato ad un ulteriore peggioramento della situazione delle masse, anche se per ora tende anche a paralizzare le loro reazioni. In Algeria, questo momento è stato scelto dal regime per porre fine al movimento di protesta in corso dal febbraio 2019 e intraprendere una svolta repressiva. In tutti questi paesi la situazione non è meno esplosiva. Di fronte a condizioni sempre più insostenibili, le richieste e le rivolte non potranno che riemergere.

Iraq, Yemen, Siria, Libia e ora anche Libano mostrano come il dominio imperialista possa rovinare paesi interi attraverso le distruzioni fisiche e materiali o la distruzione delle loro economie. Porre fine a questa dominazione dell'imperialismo richiederà anche lo smantellamento dei regimi dittatoriali che ne fanno da intermediari, e dei confini con cui ha spezzettato tutta questa zona.

La Russia e il suo "vicino estero" scossi dalle crisi

Negli Stati dell'ex Unione Sovietica, la maggior parte dei quali sono già stati soggetti a crisi quasi permanenti dopo la dissoluzione dell'URSS tre decenni fa, le crisi prendono a volte una piega esplosiva con l'aggravarsi della crisi dell'economia mondiale.

In Kirghizistan, uno dei cinque membri dell'area di libero scambio istituita intorno alla Russia, una serie di elezioni truccate seguite da sommosse ha portato al rovesciamento del governo, come già nel 2005 e nel 2010 in circostanze analoghe. Negli ultimi 15 anni, la corruzione, l'autoritarismo dei clan al potere e il continuo impoverimento della popolazione hanno dato vita alle cosiddette "rivoluzioni colorate" in Ucraina, Georgia, Armenia, Moldavia e in Asia centrale.

La guerra è scoppiata ancora una volta tra l'Azerbaigian e l'Armenia intorno al Nagorno-Karabakh, sullo sfondo di una corsa a capofitto delle cricche che governano questi paesi e regioni. Queste cercano in questo modo di far dimenticare alle loro popolazioni le proprie responsabilità per il loro impoverimento, sullo sfondo di rivalità e di corsa militare tra Russia e Turchia per affermarsi come potenza custode del Caucaso.

Nel 1988, ai tempi dell'URSS, quando i burocrati che ne gestivano le 15 repubbliche erano impegnati a spartirsi i loro popoli e le loro ricchezze tramite una demagogia essenzialmente nazionalista, il Nagorno-Karabakh, popolato da una maggioranza di armeni, si era staccato dall'Azerbaigian, da cui fino ad allora era stato amministrativamente dipendente.

Sei anni di "pulizia etnica" e di guerra avevano causato 30.000 morti e portato allo sfollamento di oltre un milione di persone dalle loro case in tutta la regione. Da allora, queste popolazioni che da secoli vivevano sullo stesso territorio, sono sprofondate in un clima di ostilità armata con i vicini, mantenuto dai loro capi e dai loro padrini delle grandi potenze.

La Rivoluzione dell'Ottobre 1917 aveva proclamato il diritto dei popoli all' autodeterminazione, e dato ai popoli dell'ex Russia zarista la più grande libertà sul modo in cui organizzare la loro vita collettiva nell'ambito del paese dei soviet. Però non poteva avere la capacità di risolvere la "questione nazionale" nel quadro di un unico paese, per di più isolato e povero. Questo obiettivo - come molti altri per i quali Lenin, Trotsky e i loro compagni lottarono - poteva essere raggiunto solo se la rivoluzione socialista, vincendo almeno in diversi paesi sviluppati, avesse permesso all'intera società, nella sua diversità nazionale, di elevare il suo tenore di vita materiale e culturale.

Negli anni Venti, però, la rivoluzione rifluì in Europa. In URSS ciò consentì a una burocrazia controrivoluzionaria di usurpare il potere della classe operaia. La burocrazia stalinista calpestò anche i diritti dei popoli, alcuni dei quali (ceceni, tatari della Crimea, ecc.) furono addirittura deportati. Eppure, nonostante tutto l'orrore dello stalinismo, più di cento nazionalità convissero pacificamente per sette decenni nel vasto complesso multietnico qual era l'Unione Sovietica.

La scomparsa dell'URSS rappresenta per i suoi popoli una regressione storica. Uno tra i suoi aspetti più spaventosi è la spartizione dei popoli tra nuovi confini artificiali, mentre le loro vite sono insanguinate, come sotto lo zarismo, dai pogrom e dagli odi nazionali, strumentalizzati dalle alte sfere del potere.

Questo vale anche per l'Ucraina orientale. La sua popolazione è ostaggio di cricche burocratico-mafiose nazionali nel contesto di una prova di forza tra l'Occidente e la Russia. Il risultato è migliaia di morti, distruzioni senza fine, nazionalismo e vendette che avvelenano la vita sociale sia in Ucraina che in Russia.

In Russia da vent'anni Putin fa leva sul nazionalismo per mantenersi al potere. Ma le politiche attuate dal regime di fronte alle ripercussioni della crisi globale sul paese, per salvaguardare il reddito dei privilegiati e dei ricchi a scapito delle classi lavoratrici, minano il relativo consenso "popolare" che ha costituito la base del bonapartismo russo. Ed è per consolidare il suo potere che il padrone del Cremlino ha istituito una sorta di presidenza a vita.

Quest'estate in Bielorussia il presidente Lukashenko è stato destabilizzato quando la sua rielezione fraudolenta alla testa del paese ha gettato folle di manifestanti nelle strade, e fatto scioperare decine di migliaia di lavoratori. Il suo potere non si è ancora ristabilito, nonostante una repressione senza tregua, e il fatto che abbia l'appoggio di Putin - che sa che gli effetti della crisi globale potrebbero anche scuotere il suo regime - e quello più ipocrita degli Stati dell'Europa occidentale, che temono che il caos politico e sociale si sviluppi alle loro porte.

Questa "ultima dittatura in Europa", secondo i dirigenti occidentali, che non le perdonano di aver mantenuto alcuni tratti del regime sovietico, è in vigore da 26 anni. Ciò è dovuto al fatto che il regime, pur garantendo le prebende dei burocrati, non ha abolito i benefici sociali dell'epoca precedente, né attuato privatizzazioni mafiose ed altre "riforme" di mercato che hanno brutalmente impoverito la popolazione del resto dell'ex URSS, o almeno non l'ha fatto allo stesso punto della Russia e dell'Ucraina.

Tuttavia, la crisi globale ha indebolito il ruolo del regime bielorusso come intermediario commerciale tra la Russia e l'Occidente, di cui godeva da tempo. Ciò ha costretto il regime a rivedere drasticamente il "compromesso sociale" su cui poggiava. Ha colpito le stesse condizioni di vita della classe operaia e non ha più lasciato alla piccola borghesia le stesse speranze di arricchimento di prima.

Per questo la protesta attuale ha un carattere contraddittorio, con la piccola borghesia che guarda all'occidente mentre le classi popolari vedono che il regime è un loro nemico, ma che l'opposizione liberale non è loro alleata. Anche quando essa continua a chiedere ai lavoratori di unirsi dietro ai suoi obiettivi politici e interessi di classe.

L'interesse dei lavoratori bielorussi sarebbe naturalmente di approfittare del movimento di contestazione contro Lukashenko per organizzarsi, per avanzare le proprie richieste. Non si tratta solo di contestare l'opposizione liberale - e in fondo pro-borghese - e la sua pretesa di guidare la lotta dell'intera popolazione contro il regime. Ma si tratta ancor di più di apparire come fautori di un'altra forma di organizzazione economica della società, che non sia il paternalismo mafioso della burocrazia, né il ritorno in seno al mercato e quindi al dominio imperialista. Un sistema guidato dalla classe operaia, un sistema socialista che non si limiti nemmeno a un cambiamento radicale in un singolo paese - cosa impossibile - ma che ponga come prospettiva il rovesciamento del capitalismo e di tutte le forme di oppressione su scala globale.

Nessun partito difende questa prospettiva nella crisi bielorussa. Né è stato difeso, e da molto tempo, in nessuna delle importanti crisi in cui, in altri paesi, la classe operaia ha dovuto lottare, qualche volta in prima linea come ha fatto per diversi decenni nell'Europa dell'Est, soprattutto in Polonia.

Il rapido peggioramento della crisi del mondo capitalista rende più che mai necessario che delle organizzazioni difendano di nuovo questa prospettiva davanti ai lavoratori e davanti a tutti gli strati sociali che cercano di scuotere un ordine ingiusto sempre più insopportabile. Costruire organizzazioni rivoluzionarie comuniste e radicate nella classe operaia è un compito urgente e primordiale. È l'unica via veramente feconda per far uscire l'umanità dall'impasse di lotte che al meglio sono difensive contro i mali che il capitalismo le sta imponendo e le imporrà sempre più se la rivoluzione operaia non riuscirà ad abbattere questo sistema.

30 ottobre 2020