Iraq : una guerra di brigantaggio imperialista

Print
Da "Lutte de Classe" n° 72 (Iraq : una guerra di brigantaggio imperialista)
25 aprile 2003

Introduzione

I dirigenti americani hanno vinto la guerra contro l'Iraq, e si congratulano con questo successo raggiunto in meno di tre settimane. Ma per noi questa vittoria rapida dell'intervento militare non lo rende più giustificato. Una guerra di brigantaggio imperialista, anche rapidamente vinta, rimane quello che è. Anche se il progresso tecnologico delle cosiddette nazioni avanzate, la loro potenza militare, consentono di vincere in tre settimane una guerra coloniale che cinquant'anni fa avrebbe necessitato più tempo, questo non rende questa guerra meno abietta, né per i suoi obiettivi, ne per il suo svolgimento e i suoi i risultati.

Quanti morti, quanti feriti, quante persone rimarranno mutilate, nella loro carne e nella loro vita, da questa guerra ? Forse non lo sapremo mai. Né quelli che l'hanno condotta, e neanche la stampa, cercano a fare veramente questo bilancio. Ma si sono visti i metodi degli eserciti della coalizione. Le bombe che dovevano mirare solo alle forze del regime cadevano anche sui quartieri popolari, sui mercati. Per i cosiddetti bombardamenti "mirati", si utilizzavano bombe di forte potenza o addirittura bombe a frammentazione, fatte per uccidere e mutilare il più possibile. Risparmiare i civili non era nella consegna per i soldati americani. Di fronte agli anziani, ai bambini, alle donne e agli uomini, anche in borghese, era consigliato sparare prima, caso mai questi avessero intenti ostili !

Si diceva che l'esercito iracheno rappresentasse una minaccia con le sue armi di distruzione di massa. Le ispezioni dell'Onu non ne hanno trovate, ma hanno permesso di ancora un po' di più l'esercito iracheno, il cui armamento già era irrisorio nei confronti di quello delle Stati Uniti.

Laddove i soldati iracheni hanno opposto una resistenza, sono stati sommersi sotto il diluvio delle armi di distruzione, certamente di massa questa, che le forze americane e inglesi potevano fare piovere. La potenza di fuoco delle forze anglo-americane ha permesso non solo di infrangere le strutture dell'esercito avverso, ma anche di distruggere in tre settimane una gran parte delle infrastrutture di un paese già in gran parte indebolito da dodici anni di embargo.

Quindi i regime iracheno è crollato, tanto più facilmente che senz'altro era già profondamente marcio. La popolazioni e i soldati iracheni, anche opposti all'intervento americano, non potevano avere voglia di sacrificarsi fino all'ultimo per questo regime.

Quanto al dittatore Saddam Hussein, è morto, o si è salvato ? C'è stato un negoziato segreto con le forze della coalizione, come se n'è sentito la voce ? Non lo sappiamo, ma non importa. Quello che conta per noi non è la sorte di Saddam Hussein, bensì quella del popolo iracheno. Proprio perché ci poniamo dal suo punto di vista, eravamo e rimaniamo opposti a questa guerra.

Si diceva che l'intervento americano dovesse portare "democrazia" e "prosperità" agli iracheni. Per ora ha portato o morte, miseria, distruzione, e come risultato un'occupazione militare straniera.

Visto il caos sociale e politico, anche le parole di trionfo dei dirigenti della coalizione si sono fatte relativamente discrete. Non sarà facile mantenere la loro occupazione militare. Certamente, un amministratore militare americano è stato nominato, il generale in pensione Jay Garner. Ha il profilo adatto per essere governatore coloniale dell'Iraq, ma non governa ancora niente.

Per dirigere il paese, i dirigenti americani hanno bisogno di appoggi locali. Contavano sicuramente che l'apparato di Stato iracheno, sbarazzato del suo capo, si sarebbe messo al loro servizio. Oggi cercano a ricostituire un'autorità, appoggiandosi sugli ex quadri della dittatura, e tra l'altro la polizia. Cercano di rimettere in posto il vecchio apparato di Stato che ha servito la dittatura, soltanto sbarazzato delle 55 figure del gioco di carte che elenca gli esponenti del regime di cui non vogliono a nessun prezzo. Ma questo significa che accettano tutti gli altri.

La dittatura non ha lasciato posto a forze organizzate d'opposizione. Tutto ciò che il paese contava di militanti politici o di altre organizzazioni, sindacali o sociali in generale, sono stati perseguitati e spesso giustiziati, e in particolare i militanti del partito comunista iracheno, che era uno dei più forti del mondo arabo. Tutto questo è stato fatto col sostegno, o addirittura le congratulazioni dei dirigenti occidentali in generale, americani e anche francesi, che per anni ritenevano che per questo Saddam Hussein era un dirigente responsabile con chi si poteva trattare.

Cercando di appoggiarsi sulle sue oppure tribali, sui dirigenti religiosi e i notabili che si mostravano pronti a sostenere il regime, Saddam Hussein non ha fatto altro che prolungare i metodi che erano del potere coloniale tra i tempi in cui questo imperava in Iraq.

Quindi, i dirigenti imperialisti raccolgono ciò che hanno seminato. Le forze che oggi appariscono per tentare di controllare la situazione sono i dirigenti religiosi sciiti, ma anche i capi banda, anche quelli che avevano la protezione del potere di Saddam Hussein, le piccole e le grandi mafie. I dirigenti politici che affermano sostenere la causa degli americani sono dello stesso tipo, come questo Ahmed Chalabi, finanziario corrotto che ha lasciato l'Iraq da più di 40 anni ed è oggetto di azioni giudiziarie per truffa.

Al meglio la democrazia promessa sarà una certa stabilizzazione intorno ai notabili tribali o alla gente del tipo di Chalabi, appoggiata all'esercito americano. E al peggio, se la situazione non si stabilizzerà, sarà come in Afghanistan : lasceranno il caos, pur controllando Baghdad, Bassora... e i pozzi di petrolio.

Già è un po' così. A Baghdad solo il ministero del petrolio è stato sin dall'inizio protetto dalle truppe americane. In altri posti, controllano i campi petroliferi, gli oleodotti, alcune grandi vie di comunicazione. Hanno cominciato a ripristinare il porto di Um Qasr, a vantaggio delle imprese americane incaricate dei lavori, che di più sono vicini alla squadra presidenziale americana.

Le preoccupazioni delle forze d'occupazione non sono per la popolazione irachena : mancano ancora elettricità, acqua, medicine e attrezzamenti per gli ospedali, senza parlare del cibo e degli aiuti umanitari che non arrivano. La situazione drammatica della popolazione irachena peggiorerà ancora. I bombardamenti sono finiti, ma gli iracheni pagheranno ancora a lungo, in molti modi, le conseguenze di questa guerra.

I dirigenti dell'imperialismo americano volevano mettere la mano sul petrolio. E' cosa fatta, e il caos che hanno provocato viene versato al conto profitti e perdite, tanto più che non sono loro a pagare. Ciò che sta capitando nel Medio Oriente ripeta ciò che è già la situazione di alcuni paesi d'Africa, o dell'Afghanistan, paesi che sono preda di guerre incessanti tra bande armate di cui la popolazione paga le esazioni, mentre le forze imperialiste si mantengono sulle posizioni necessarie per saccheggiare facilmente le risorse del paese.

Ecco quale "democrazia", quale "prosperità" stanno portando le forze armate dell'imperialismo. Ecco la faccia di questo sistema di sfruttamento che impera sul pianeta solo per via delle guerre, del saccheggio delle risorse, della miseria, delle distruzioni, delle devastazioni e della destrutturazione totale delle società, in cui non impera più che la legge della giungla.

Ce lo auguriamo, compagni, questa arroganza, questo disprezzo, questo cinismo, i dirigenti del mondo imperialista alla fine li dovranno pagare molto caro.

25 aprile 2003

La guerra di brigantaggio imperialista

Con l'utilizzo di bombe a frammentazione, fatte per uccidere, col mitragliare pullman in cui c'erano evidentemente solo civili e sopratutto donne e bambini, con l'utilizzo dei vecchi metodi di tutti gli eserciti coloniali per prendere il controllo di un villaggio, sfondando le porte, umiliando gli abitanti, l'esercito americano-inglese ha dimostrato che non si atteneva alle cosiddette "azioni mirate". L'obiettivo non era solo Saddam Hussein e il suo regime, bensì tutta la popolazione irachena. E tanto peggio se l'opinione pubblica internazionale ne rimaneva commossa.

(...) Hanno sbagliato i dirigenti americani nella loro valutazione del morale e della capacità di battersi dell'esercito iracheno ? Hanno solo sottovalutato il terrore esercitato da Saddam Hussein sulla popolazione, il controllo da parte del partito Baas, che sarebbero stati tali da impedire che la gente possa esprimere il suo vero pensiero ? Hanno pagato le difficoltà con la Turchia, il cui risultato finale è stato di non potere aprire un fronte a Nord dell'Iraq in modo da poter prendere Baghdad a tenaglia ? Ciò che comunque sembra evidente è il fatto che la popolazione irachena non accoglieva l'esercito della coalizione come un esercito di liberazione. Malgrado l'odio per la dittatura di Saddam Hussein, la popolazione irachena percepisce le truppe americane o inglesi per quello che sono : delle truppe d'invasione straniere.

Non importa sapere se l'errore di valutazione dello stato d'animo della popolazione irachena sia stata colpa dei politici alla testa del Pentagono, come lo hanno affermato nell'anonimato alcuni ufficiali superiori americani, o se come lo dice la tesi ufficiale i piani di guerra erano l'opera comune di militari e di politici. I dirigenti imperialisti tendono sempre a presentare le loro guerre come se dovessero portare libertà, democrazia e civiltà ai popoli che bombardano o mitragliano.

Il carattere imperialista della guerra.

In questo tipo di guerra la scelta è chiara per i rivoluzionari comunisti : non si tratta solo di opporsi alla guerra ma anche di essere nel campo del popolo iracheno di fronte agli aggressori americano-inglesi, pur denunciando la dittatura di Saddam Hussein (al contrario di tutti i dirigenti francesi che, da Chirac ai dirigenti socialisti, sono d'accordo con gli obiettivi della guerra, se non con la guerra stessa, e si augurano la vittoria degli Stati Uniti).

Devono respingere con disprezzo ogni pretesa delle truppe d'invasione di fare la guerra in nome della democrazia o in nome della libertà. Da quando è esistito l'imperialismo è stato solito coprire le sue azioni più aggressive con astrazioni o formule generali di questo genere. Ma queste formule servono solo per provare a nascondere davanti ai popoli i loro veri obiettivi di guerra, che sono di imporre o rafforzare il controllo sui paesi e sui popoli.

Furono proprio la mezza dozzina di democrazie imperialiste a ridurre per decenni i tre quarti dell'umanità allo stato di colonie (l'India, tutta l'Africa, ecc) o di semicolonie (Cina, America Latina, o appunto Medio Oriente).

La democrazia delle grandi potenze imperialiste nacque sulla base della schiavitù coloniale. Anche dopo il superamento della forma coloniale del dominio imperialista, i vincoli di subordinamento e di saccheggio permangono. La sola differenza è che la frusta non è più direttamente nelle mani dei capi del mondo imperialista, bensì dei loro valletti autoctoni. Ma la guerra attuale dimostra che quando questi ultimi vengono a mancare, gli eserciti delle potenze imperialiste sanno impegnarsi direttamente.

Proprio perché la loro democrazia poggia sulla schiavitù dei popoli dei paesi sottosviluppati ridotti alla miseria, le potenze imperialiste non possono esportate regimi democratici verso i paesi poveri. Difatti un regime democratico, anche nel senso limitato di quello che vige negli Stati Uniti, in Francia, Germania o Italia, non è possibile nelle condizioni di miseria e di disuguaglianza estrema esistenti nei paesi poveri. Non c'è, in nessuno dei paesi alleati degli Stati Uniti nella regione, un regime democratico. Al meglio, sono regimi autoritari come la Turchia, e al peggio sono teocrazie medioevali che applicano la sharia e negano alle donne la qualità di essere umano a pieno titolo. Alcuni di questi paesi però sono ricchi delle loro risorse petrolifere. I loro principi, emiri o re, hanno frequentato le scuole militari più chic d'Inghilterra o degli Stati Uniti, prima di frequentare i casinò in Francia, e non hanno niente da rifiutare ai dirigenti americani. Bisogna concludere che questi si sono dimenticati di insegnare loro le pratiche democratiche che pretendono di imporre in Iraq a colpi di missili.

Quanto ad Israele, l'unica "democrazia" della regione riconosciuta uguale a loro da quelle dell'Occidente, essa poggia sulla spoliazione del popolo palestinese. Ha come dirigente l'uomo d'estrema destra Sharon, e come volto quello di una vera guerra coloniale interna.

La scelta di un campo in questa guerra non deriva neanche, ovviamente, dell'"illegalità" dell'aggressione. Una legittimazione da parte dell'Onu non avrebbe cambiato per niente la natura di questa guerra. Senza fare il lungo elenco delle guerre imperialiste che sono state condotte con la legittimazione dell'Onu, ricordiamo solo che fu proprio la Sdn, la Società delle Nazioni antenato dell'Onu, a sancire la divisione del Medio Oriente tra le potenze imperialiste francese e inglese all'indomani della prima guerra mondiale, e ad immaginare la formula giuridica del protettorato inglese sull'Iraq e del protettorato francese sulla vicina Siria.

Quanto alla guerra di civiltà contro un regime barbaro, di cui parlano alcuni imbecilli, se è evidente che il regime iracheno è barbaro, cosa dobbiamo dire della superpotenza che mobilita tutta la sua capacità tecnica per seminare sistematicamente morte e distruzioni e in un piccolo paese già povero ? E' il rappresentante della civiltà, questo presidente alla testa del paese più moderno del mondo che, di fronte al suo avversario che si appella allo Gihad, si riferisce a Dio e alla Bibbia per giustificare con accenti da Medioevo una guerra imperialista moderna ?

L'atteggiamento politico dei comunisti rivoluzionari non deriva neanche da una posizione pacifista. In questo mondo imperialista in cui tutto viene regolato dalla violenza e dai rapporti di forza, ci sono guerre perfettamente legittime. I rivoluzionari certamente non negano ad un popolo oppresso da una potenza imperialista il diritto di utilizzare la violenza per liberarsi.

L'atteggiamento dei rivoluzionari comunisti è dettato dal fatto che la guerra attuale è la continuazione, con altri mezzi, di una politica imperialista secolare per controllare il Medio Oriente. Questa guerra è il prolungamento di tante altre guerre che hanno dilaniato la regione nel corso del secolo passato, condotte da una mezza dozzina di potenze imperialiste, qualche volta coalizzate, qualche volta opposte.

La guerra all'Iraq è una guerra per il dominio del Medio Oriente nel suo complesso. La più potente delle potenze imperialiste, gli Stati Uniti, prova a ridistribuire le carte e i mercati in tutta la regione. Non si tratta soltanto di sottomettere l'Iraq, in modo che un'amministrazione semi coloniale, solo americana secondo Washington, controllata dall'Onu secondo gli europei, ridistribuisca le concessioni petrolifere in questo paese che detiene la seconda riserva mondiale di greggio.

Si tratta di insediare un regime malleabile dall'imperialismo, in questo caso dalla principale potenza imperialista, gli Stati Uniti, in modo che sia in grado di esercitare una pressione sui governi della regione, fosse solo tramite l'Opec e la quantità di petrolio prodotto. Questo ruolo era tradizionalmente quello dell'Arabia saudita. Ma i dirigenti del mondo imperialista hanno qualche ragione di essere prudenti rispetto all'evoluzione di questo paese. E comunque è sempre meglio non puntare tutto sulla stessa carta. Il controllo dei due maggiori produttori del Medio Oriente lascia ovviamente uno spazio più vasto alle manovre imperialista e dà anche la possibilità di giocare queste due potenze l'una contro l'altra, così come aveva fatto l'imperialismo con l'Arabia saudita e l'Iran prima della caduta del regime dello Scià.

A differenza dei riformisti di ogni genere, di cui i Verdi costituiscono una variante ipocrita, i comunisti rivoluzionari non devono quindi limitarsi a denunciare la guerra dal punto di vista morale o dal punto di vista di un pacifismo astratto. Ricordiamo tra l'altro che, nonostante il loro pacifismo, i Verdi hanno sostenuto i bombardamenti sull'ex Iugoslavia !

Quanto ai socialisti, il loro pacifismo si è ben evidenziato in tutte le guerre coloniali che hanno legittimate o di cui hanno assunto la completa responsabilità politica. In conseguenza del loro ruolo nella sporca guerra d'Algeria, Guy Mollet o Mitterrand sono certamente alcuni dei servitori più schifosi della borghesia imperialista francese. Il fatto che i loro eredi, i dirigenti socialisti odierni, si precipitano davanti alle telecamere per occupare le prime file di alcune manifestazioni contro la guerra, è solo una testimonianza della loro ipocrisia. Il loro pacifismo, al contrario della sincera ostilità alla guerra di chi partecipa alle manifestazioni, è solo una sceneggiata. Questo atteggiamento è tanto più facile in quanto lo stesso Chirac si oppone alla guerra, e i dirigenti socialisti devono solo fare lo sforzo di sostenerlo.

Ma denunciare la coalizione imperialista e i suoi obiettivi di guerra, e augurarsi il suo fallimento, non significava nessuna condiscendenza politica verso Saddam Hussein e il suo regime.

Saddam Hussein era un oppressore, non solo per le componenti curda e sciita della popolazione, prive di diritti, massacrate, gasate a più riprese. Lo era anche per l'insieme delle classi lavoratrici d'Iraq. Saddam Hussein fu anche, in passato, l'uomo che rappresentò gli interessi imperialisti nella guerra che fece all'Iran vicino, e anche contro il suo proprio popolo.

Eppure la coalizione americano-inglese, la sua aggressione, il macello fatto nella popolazione, davano a Saddam Hussein un prestigio da capo della resistenza nazionale. Agli occhi di tutte le masse arabe, che nella maggior parte dei paesi sono governate da regimi servili rispetto all'imperialismo, Saddam Hussein ha conquistato il prestigio di uno che sapeva resistere.

Mezzo secolo fa in Egitto, un colpo di Stato militare rovesciò la monarchia e il re protetto dall'Inghilterra, e finì col portare al potere il colonnello Nasser.

Nonostante il regime di severa oppressione imposto da Nasser al suo proprio popolo, questi conquistò un prestigio eccezionale da un capo all'altro del mondo arabo, e anche al di là di questo in molti paesi poveri. Questo prestigio però poggiava almeno su un certo numero di atti politici che avevano un carattere antimperialista, quali la nazionalizzazione del Canale di Suez o l'espulsione -negoziata, è vero- delle truppe inglesi dal paese. La sua politica certamente non mirava ad offrire alle masse arabe oppresse una prospettiva di lotta contro l'imperialismo. Nasser rappresentava però una politica progressista, fosse solo perché combatteva le correnti fondamentaliste religiose della sua epoca, e un certo modernismo con la statalizzazione di alcuni settori dell'economia. Pur stretti che fossero i limiti di questa politica, essa incarnava una certa opposizione alla pressione imperialista.

Saddam Hussein invece si opponeva agli Stati Uniti non solo in nome del nazionalismo arabo, ma anche in nome dell'Islam, associandosi alle correnti più reazionarie e retrogradi. Che la persona di Saddam Hussein sia sopravvissuta alla guerra o meno, il fatto che in compagnia di Bin Laden esso possa diventare l'eroe o il martire delle masse arabe certamente non è un passo avanti, è un passo indietro. E l'imperialismo, che è stato già direttamente responsabile del rafforzamento delle correnti più reazionarie dell'Islam e che ha praticamente fabbricato i talebani, avrà prodotto un nuovo fenomeno politico che invece di chiarire le battaglie future delle masse sfruttate arabe, al contrario le incatenerà.

Lo sviluppo di questo tipo di correnti è nefasto, non solo per le masse povere dei paesi arabi, ma anche, di riflesso, per la classe operaia dei paesi d'Europa.

In Francia in particolare i lavoratori originari dal Maghreb costituiscono una componente importante della classe operaia e più ancora dei suoi ceti più sfruttati. Benché l'imperialismo francese non sia stato direttamente impegnato nella guerra, la solidarietà con l'Iraq ha preso qualche volta la forma di un'approvazione di Saddam Hussein. L'apparizione nelle manifestazioni contro l'aggressione americana di alcuni ritratti di Saddam Hussein era forse solo aneddotico. Ma nelle anime c'è forse di più di quello che appare in pubblico. E il credito che Saddam Hussein acquisiva nei quartieri popolari o addirittura nelle imprese era tanto più nocivo per i lavoratori in quanto i propagandisti sono spesso militanti fondamentalisti che integrano il dittatore iracheno alla loro mitologia. Questo è grave di per se perché si tratta di una corrente di idee reazionarie, retrograde. Ma lo è ancora di più per le sue conseguenze, in particolare la reazione di maggiore ripiegamento su se stessi dei lavoratori di origine araba, il comunitarismo. E una piaga che il movimento operaio dovrebbe combattere in nome dell'unità della classe operaia al di là delle sue origini diverse.

I danni dell'aggressione americana non saranno solo materiali e umani ma anche politici e morali.

Il saccheggio

Ciò che è successo nel 1991, quando i dirigenti americani lasciarono Saddam Hussein e il suo esercito reprimere l'insurrezione del Nord curdo e delle regioni a popolazione sciita, non era solo l'espressione di una scelta del presidente americano dell'epoca, Bush padre, che aveva preferito lasciare Saddam Hussein in posto. Dietro questo aspetto della scelta, circostanziale e infatti criticato in seguito da un certo numero di dirigenti dell'imperialismo americano, c'era un altro aspetto ben più profondo. Al di là della persona del dittatore, gli Stati Uniti non volevano distruggere l'apparato di Stato stesso e principalmente la gerarchia militare dell'esercito, in modo che dopo il rovesciamento del regime di Saddam Hussein, le forze di repressione si schierino dalla parte delle potenze d'occupazione.

Comunque la popolazione irachena, che ha ricevuto dagli anglo-americani tanti volantini spiegando che questi venivano per liberarla dal regime di Saddam Hussein, con forte probabilità ritroverà i dopo questa "liberazione" gli stessi poliziotti, gli stessi militari, gli stessi torturatori a sostegno del nuovo ordine. E ovviamente non parliamo dei notabili, dei capi tribù o dei capi clan che innalzavano i fucili davanti alle telecamere e giuravano di morire per Saddam Hussein, che per conservare il potere e i privilegi sapranno anche innalzare la bandiera americana, se però gli occupanti saranno abbastanza stupidi da chiederglielo.

Difatti, qualunque sia la soluzione politica scelta per gestire l'occupazione dell'Iraq, qualunque sia l'importanza numerica delle truppe d'occupazione, queste truppe certamente non basteranno a mantenere l'ordine, anche se la resistenza della popolazione non si prolunga dopo la caduta del regime. Il che ovviamente non è scontato, al contrario.

Quanto alla soluzione politica per l'Iraq, si sta delineando una frattura tra gli Stati Uniti e gli imperialismi di secondo rango europei, compreso l'imperialismo britannico. L'arroganza con cui i dirigenti americani proclamano che se gli Stati Uniti vinceranno la guerra, allora ne dovranno approfittare loro, la precipitazione con cui i primi contratti sono stati firmati per fare a pezzi l'Iraq anche prima che sia stato sconfitto, il fatto che i beneficiari dei contratti già firmati siano esclusivamente americani, anche laddove, come nel caso del porto di Um Qasr, un consorzio britannico era in gara, non può che creare preoccupazione tra i gruppi industriali e finanziari di Francia e Germania, e anche di Gran Bretagna.

La Gran Bretagna manovra già per ritrovare, dopo la guerra di cui è stata complice, una certa libertà d'azione rispetto al suo troppo potente alleato. Di colpo, essa ritrova la strada dell'Europa. Questa unione europea, che durante la guerra ha dimostrato ancora una volta la sua inesistenza politica, forse riallaccerà un po' i vincoli sfilacciati, per provare a fare da contrappeso gli Stati Uniti o almeno a frenare la loro avidità. Con quale successo ? Questa è ancora un'altra questione.

Dietro il disaccordo sull'amministrazione americana diretta oppure l'amministrazione sotto controllo dell'Onu, si affrontano potenti interessi. Nella guerra contro il popolo iracheno, c'è un'altra guerra che non si fa con le armi ma oppone gli uni agli altri i gruppi capitalisti della mezza dozzina di potenze imperialiste interessate al conflitto. Si vedrà in futuro quale scelta sarà fatta. Ma qualunque siano i progetti portati avanti oggi, tutto dipende dalla durata della guerra, dalle condizioni in cui verrà a termine e dalle conseguenze che potrebbe produrre nel Medio Oriente. Certamente gli Stati Uniti sono la potenza imperialista dominante di gran lunga, tanto nel campo militare quanto nel campo economico. Ma se la guerra porterà a delle esplosioni popolari in vari paesi del Medio Oriente, forse avranno bisogno di una complicità più diretta da parte delle altre potenze imperialiste, compreso sotto forma di una partecipazione all'occupazione militare.

Ma al contrario delle fiabe propagate in Francia, sia da parte della destra di Chirac che dai grandi partiti riformisti, la scelta di un'amministrazione sotto controllo dell'Onu non sarebbe affatto migliore per la popolazione irachena. L'Onu sicuramente non rappresenta i popoli o la democrazia più del duetto anglo-americano. Rappresenta solo un po' di più gli interessi collettivi della mezza dozzina di potenze imperialiste che hanno interessi nella regione, e infatti solo un po', tanto è vero che anche all'interno dell'Onu sono i rapporti di forza che contano.

Quindi questi appelli all'Onu, aggiunti sistematicamente dai socialisti ai loro slogan pacifisti nelle manifestazioni, non significavano niente altro che la difesa del diritto delle potenze imperialisti d'Europa di partecipare al saccheggio intorno alle spoglie dell'Iraq. Qual'è allora la sincerità di questa cosiddetta opposizione all'assassinio di un popolo, se serve a rivendicare il diritto di derubarlo quando sarà stato assassinato ?

Anche se dice che era opposta alla guerra, la borghesia francese è una borghesia imperialista. Il fatto che Chirac abbia ritenuto più utile, dal punto di vista dei suoi propri interessi politici, e anche ovviamente dal punto di vista degli interessi dell'imperialismo francese, di non partecipare all'aggressione contro l'Iraq, non rende la borghesia francese che governa questo paese meno imperialista.

Non torniamo sul fatto che la Francia ha preso parte alla prima guerra del Golfo ; che ha sostenuto e applicato un embargo di dodici anni ; che è stata completamente d'accordo con gli obiettivi di guerra degli Stati Uniti e lo ha espresso col suo voto della risoluzione 1441 dell'Onu, al pari di tutti.

Il disaccordo con gli Stati Uniti sulla data e le modalità della guerra certamente non fa di Chirac un pacifista, termine che comunque egli stesso rifiuta.

Sarebbe stato bene ingenuo, e tra l'altro rapidamente smentito, il militante antiguerra che, all'inizio della prima guerra mondiale nel 1914 o nel 1915, si sarebbe rallegrato per la neutralità, e quindi per il pacifismo dell'imperialismo americano o dell'imperialismo italiano. La natura imperialista di una grande potenza non deriva dalla sua presa di posizione in un determinato momento, e neanche in una determinata guerra. Bisogna davvero ricordare che nell'aggressione contro l'Egitto del 1956 per punire Nasser della nazionalizzazione del canale di Suez, furono l'imperialismo francese e l'imperialismo inglese, accompagnati da Israele, a cominciare la guerra, e fu poi l'imperialismo americano a fermarla ?

Durante l'avvicinamento caotico della sua colonia del Congo all'indipendenza, il piccolo imperialismo belga provò a preservare una parte del suoi interessi economici, dividendo il paese per conservare il suo controllo almeno sulla provincia ricca del Katanga. Gli Stati Uniti intervennero allora per fermare la guerra e preservare almeno momentaneamente l'unità del Congo. A quell'epoca, ci fu qualche gente, anche all'estrema sinistra, le cui convinzioni antimperialiste sembravano solide, per inneggiare al ruolo degli Stati Uniti e al carattere non imperialista del loro intervento !

Ma l'imperialismo non è una malattia che appare casualmente e poi sparisce. Non è un comportamento fortuito. E' la natura stessa del capitalismo dei paesi economicamente avanzati, ad un certo momento del loro sviluppo. Tutta la politica, tutta la diplomazia degli Stati imperialisti sono subordinate all'interesse dei grandi gruppi industriali e finanziari. Essendo la guerra la continuazione della politica con altri mezzi, essa è solo per gli imperialisti uno degli strumenti del loro dominio sulla sorte dei popoli.

L'aggressività particolare dell'imperialismo americano in questo Medio Oriente, così importante economicamente e strategicamente, risulta dalla sua potenza e dalla sua superiorità sui suoi rivali imperialisti. Già ottanta anni fa, analizzando le basi del militarismo americano, Lev Trotski spiegava in un discorso all'esercito rosso fatto nel 1924 : "il capitale americano soffoca sotto la propria sovrabbondanza. Nell'ambito del suo mercato interno ha raggiunto un certo limite. Vi si può ancora sviluppare parzialmente, e finora si è sviluppato secondo una spirale dal raggio sempre crescente, ma perché questa spirale non si rompa contro il mercato mondiale, il capitale americano deve travolgere tutti gli altri, deve allargare il mercato mondiale ; ora non lo può allargare soltanto con mezzi economici, perché è già stato conquistato e diviso ; bisogna quindi respingere i concorrenti con la forza. Da lì deriva lo sviluppo sfrenato del militarismo, come apparato materiale e come mentalità aggressiva." Poi Trotski concludeva : "in realtà, il capitalismo americano e il suo militarismo sono ormai i distruttori dell'equilibrio capitalista mondiale". Ottanta anni dopo, proprio perché gli Stati Uniti hanno superato i loro rivali ben più che ai tempi di Trotski, non si potrebbe dare migliore descrizione delle motivazioni fondamentali della politica americana.

Anche se l'imperialismo francese ritiene più prudente e più utile di non prendere parte a questa guerra, è completamente d'accordo con gli Stati Uniti per sottomettere l'Iraq. Così come sarà completamente d'accordo per prendere la sua parte nel saccheggio delle spoglie, se però i dirigenti americani lo accetteranno.

Ma questi aspetti si vedono tanto meno che l'opinione pubblica viene orientata dai mass media, nonché dalle prese di posizione dei grandi partiti riformisti, PC e PS, che si sono tutti e due allineati alla politica di Chirac.

La Francia non partecipa alla guerra, e sarebbe abbastanza irrisorio propugnare qui la sconfitta del campo occidentale, anche completata dall'idea che l'augurarsi la sconfitta degli eserciti coalizzati non significa affatto augurarsi la vittoria di Saddam Hussein.

Invece è molto importante spiegare la natura di questa guerra. Così come e importante fare capire il vincolo indissociabile tra imperialismo e capitalismo.

Lo stato del movimento operaio politico è troppo brutto per potere giocare questo ruolo al livello che sarebbe necessario. Ma anche se una piccola parte soltanto di quelli che sono rivoltati da questa guerra ne traessero le conclusioni necessarie e venissero alla coscienza della necessità di combattere l'organizzazione capitalista della società in nome del proletariato, questa sarebbe l'unica cosa positiva che questa guerra infame potrebbe produrre.

(3 e 25 aprile 2003)

Nella continuita' di un secolo di politica di dominazione imperialista nel medio oriente.

Quando i partecipanti delle manifestazioni bruciano l'immagine di Bush o gridano slogan di cui la maggior parte mette in causa il presidente americano, completati da alcuni altri che denunciano gli Stati-Uniti, questo riflette la collera dei manifestanti di fronte alla cinica aggressione contro il popolo iracheno.

Invece il fatto che la maggior parte delle forze politiche organizzatrici di queste manifestazioni insistano su questo aspetto risulta da una scelta politica che non è affatto innocente. Difatti col porre l'accento sulla responsabilità personale di Bush o con l'insistere sull'anti-americanismo queste forze politiche nascondono le vere ragioni di questa guerra, questo sistema di sfruttamento capitalista planetario, incarnato dalla dittatura dei consorzi imperialisti, un sistema che queste forze politiche non vogliono per niente mettere in causa. E non a caso, a parte la retorica, su questo punto non ci sono grandi differenze tra le politiche del partito socialista in Francia, dei laburisti dissidenti in Gran Bretagna, dei movimenti pacifisti cristiani negli Stati-Uniti o dei fondamentalisti islamici nel Pakistan.

Qualunque sia la parte di Bush e del suo clan nello scoppio di questa guerra, è una guerra imperialista il cui obiettivo è di imporre alla popolazione irachena, e più in generale all'insieme dei popoli del Medio Oriente, un aggravamento del saccheggio delle risorse materiali e umane della regione da parte del capitale dei paesi ricchi.

Comunque i politici della borghesia, né negli Stati-Uniti né altrove, non possono fare a meno dell'accordo dei ceti più alti della classe di cui sono i rappresentanti. Passando dalla retorica alla guerra, cioè ad una politica che comporta pesanti rischi e necessita una mobilitazione di importanti mezzi statali, si può pensare che Bush ha messo in pratica ciò che i ceti dirigenti della borghesia americana volevano.

Tra l'altro i commentatori hanno largamente sottolineato gli stretti vincoli tra il clan di Bush -la sua famiglia, il suo vice-presidente, alcuni dei suoi ministri o consiglieri politici- e alcuni dei più grandi consorzi dell'armamento e del settore petrolifero. E hanno insistito sui favori di cui hanno beneficiato questi consorzi per i contratti già negoziati per il dopoguerra, e le importanti contropartite finanziarie ottenute per questo sostegno.

Ma questa non è che l'espressione, certamente scioccante ma per così dire casuale, di questa particolarità caratteristica dell'imperialismo, cioè la fusione tra i vertici dello Stato e i grandi consorzi capitalisti. "Ciò che è e buono per la General Motors è buono per gli Stati Uniti", affermava una volta l'amministratore del consorzio automobilistico. L'alto personale politico americano è abbastanza consapevole di questa grande verità del mondo capitalista, da servire corpo e anima gli interessi dei grandi consorzi anche quando questo non porta ad un aumento notevole dei loro propri redditi. Anche se, è vero, questo può aiutare ! E questo viene praticato in molti paesi imperialisti, la Francia e gli altri, sotto forma di corruzione diretta, comperando direttamente gli uomini e i partiti politici, come lo dimostra l'attuale processo di TotalFinaElf, o sotto forma di questa corruzione indiretta, considerata come una cosa normale, cioè il passaggio dei ministri alla direzione di affari privati, e viceversa.

Il processo innescato dalla guerra del Golfo

L'aggressione in corso contro l'Iraq, o almeno i suoi obiettivi, si iscrivono in un processo innescato ben prima dell'arrivo di Bush junior al potere, e con la partecipazione di protagonisti che, come la Francia, oggi pretendono essere fuori dalla guerra.

Questo processo fu innescato dall'amministrazione repubblicana di Bush senior quando, nel 1991, questi utilizzò l'invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein come pretesto per ottenere l'avallo dell'Onu alla prima guerra del Golfo. Tra l'altro, durante questa guerra, non fu la Gran Bretagna a fornire il contingente militare occidentale più importante dopo quello degli Stati Uniti, bensì la Francia allora diretta da un governo socialista,.

Questo processo proseguì poi sotto l'amministrazione democratica di Clinton, sempre con l'avallo dell'Onu, per mezzo di bombardamenti periodici e di sanzioni economiche che fecero ben più vittime in Iraq che non ne aveva fatto la guerra del Golfo. E se gli Stati Uniti, come potenza imperialista dominante, rimasero i maestri di questa seconda fase del processo con la Gran Bretagna come ausiliaria pronta a tutto, i governi francesi successivi di questo periodo non si accontentarono di votare in sede dell'Onu le risoluzioni a sostegno di Washington. Difatti rifiutarono di associarsi alle varie operazioni di bombardamenti rafforzati lanciate da Clinton, senza mai però utilizzare il loro diritto di veto all'Onu, e la marina francese ebbe lo stesso un ruolo a pieno titolo nell'applicazione delle sanzioni economiche, dando la caccia ai contravventori nel Golfo Persico.

L'obiettivo di questo processo, in particolare delle sanzioni, era di abbattere questo ex sicario dei dirigenti imperialisti ormai troppo indipendente per ispirare fiducia. Forse a Washington si calcolava più o -meno esplicitamente che alla fine il regime stesso avrebbe fatto ordine a casa, si sarebbe sbarazzato di Saddam Hussein e si sarebbe presentato con umiltà per fare atto di sottomissione all'Onu, cioè davanti all'imperialismo ? Ma al tempo stesso i dirigenti americani, e in qualche misura anche i dirigenti britannici, rafforzarono la loro presenza militare nella regione in proporzioni considerevoli, dimostrando che probabilmente non credevano tanto ad una possibile evoluzione pacifica della situazione.

Invece di sparire con scioltezza, il regime di Saddam Hussein si mantenne, lasciando i grandi consorzi capitalisti impazienti di fronte ai limiti che il regime delle sanzioni imponeva ai loro benefici. Col passare alla guerra aperta, una scelta che lo stesso Clinton aveva considerata a più riprese, Bush quindi non ha fatto altro che spingere fino in fondo la logica del processo innescato nel 1991, affondando il coltello nel vivo per mettere fine ad una situazione sempre più frustrante per gli appetiti capitalisti, e che lo diventava tanto più che la crisi economica stessa minacciava i loro profitti.

Ma la posta in gioco in questa guerra, dal punto di vista dell'imperialismo, non è solo in Iraq. Se la sua dominazione economica sul Medio Oriente non è mai stata messa in causa, il suo controllo politico su gli Stati che lo compongono non è affatto garantito. Per attuarlo, si appoggia sugli Stati alla sua devozione. Ora, il problema per l'imperialismo sta nel fatto che le dittature che gli sono completamente infeudate, proprio per questo si isolano da ogni tipo di base sociale e quindi tendono a diventare instabili. E quando uno di questi regimi cerca di allargare la sua base sociale per mantenersi al potere, lo fa spesso tramite atteggiamenti antimperialisti. Gli apparati di Stato autoctoni che non sono completamente dipendenti dall'imperialismo e dai suoi sussidi hanno una certa tendenza a manifestare velleità d'indipendenza e a giocare la loro propria parte, come fece Saddam Hussein.

Sin dal rovesciamento dello Scià d'Iran nel 1979, l'imperialismo non dispone più di un regime forte che sia alla sua devozione. E la relativa indipendenza politica rispetto all'imperialismo dimostrata da regimi relativamente stabili come i regimi dell'Iran o della Siria, li rende a priori sospetti agli occhi delle grandi potenze. Gli obiettivi della guerra attuale risultano da questo contesto : si tratta di sistemare in Iraq uno Stato completamente sottomesso agli interessi dei trust e capace di difenderli, sia contro la sua propria popolazione che, almeno fino ad un certo punto, contro le popolazioni e i regimi degli altri paesi della regione.

Il fatto che, tra altri sotterfugi tutti catastrofici per le popolazioni, l'imperialismo abbia avuto ricorso alla guerra con lo scopo di risolvere questa contraddizione, non ha origine oggi, né nella prima guerra del Golfo. E peraltro non sono neanche nate oggi le divergenze tra i vari imperialismi rispetto ai metodi da usare, divergenze che non fanno altro che riflettere le loro rivalità. Infatti da più di un secolo sono queste vicende sanguinose della dominazione imperialista a modellare tutta la storia del Medio Oriente.

Un terreno di caccia per i gruppi capitalisti rivali.

Il saccheggio del Medio Oriente da parte del gran capitale occidentale risale alla seconda metà del XIX° secolo. Furono prima le banche, inglese e francesi innanzitutto, a prendere il controllo delle finanze dei tre principali Stati della regione : l'impero ottomano (che copriva la maggior parte del Medio Oriente odierno), la Persia (l'attuale Iran), e l'Egitto. Presero il controllo della gestione dei debiti statali, come in Egitto e nell'impero ottomano, o della riscossione delle tasse doganali come in Persia. In questo ultimo paese, ottennero anche il privilegio dell'emissione della moneta per conto del regime, mentre in Egitto il governo regio includeva un inglese e un francese che rappresentavano queste banche.

Dappertutto le compagnie inglesi, francesi e tedesche concorrevano per i mercati e per i monopoli statali della regione : per il monopolio di alcune vie di navigazione, per lo sfruttamento delle foreste di Stato e delle miniere, della commercializzazione del tabacco, ecc... e ovviamente per la costruzione di canali, tra cui quello di Suez, di ferrovie e di strade.

Ma rapidamente queste compagnie non si accontentarono più di intrigare nei paesi dove erano presenti per prendere posizioni intorno al potere. Ebbero ricorso ai servizi dei propri apparati di Stato nazionali per imporre con la forza le loro decisioni alle popolazioni, e al tempo stesso cominciare a ridisegnare la regione in funzione dei loro interessi.

Così nel 1860, col pretesto di soccorrere la borghesia cristiana maronita del Libano minacciata da una rivolta dei drusi, le truppe di Napoleone III° sbarcarono in forza e proclamarono, nel cuore stesso dell'impero ottomano, un territorio autonomo del monte Libano, antenato del Libano attuale, beneficiando della protezione delle potenze europee rappresentate sul posto dall'esercito francese. Nel corso dei due decenni successivi gli inglesi da parte loro colsero il pretesto offerto da un sollevamento nazionalista in Egitto per occupare militarmente il paese, dando il via ad un'occupazione che sarebbe durata più di 70 anni. Al tempo stesso moltiplicavano i micro protettorati sulle sponde del Golfo Persico e del mare d'Oman, alle spese ovviamente dell'impero ottomano.

I profitti che le borghesie occidentali speravano ricavare da questa regione erano tali che, qualche volta, le loro rivalità stettero per portare ad un confronto aperto. Così per esempio nella battaglia diplomatica alla vigilia della prima guerra mondiale tra la Francia, la Gran Bretagna, la Germania e la Russia intorno alla famosa ferrovia di Baghdad che doveva collegare Costantinopoli -l'attuale Istanbul- a Bassora via Ankara e Baghdad.

Alla fine queste rivalità portarono alla frantumazione dell'impero ottomano, all'indomani della prima guerra mondiale, che sconvolse il Medio Oriente per dargli il suo aspetto attuale, segnato dai confini tracciati in funzione del rapporto delle forze sul terreno tra le due grandi potenze che si divisero il bottino, la Francia e la Gran Bretagna, senza nessuno sguardo per gli interessi economici o le aspirazioni nazionali di queste popolazioni.

In modo significativo, fu anche in questo periodo che nacquero due dei principali consorzi europei del petrolio, l'antenato del gruppo inglese BP come principale gestore delle risorse petrolifere d'Iran e Iraq, e l'antenato di TotalFinaElef, nato dall'appropriazione, da parte della Francia, delle partecipazioni al petrolio iracheno della Germania sconfitta.

L'imperialismo impone il suo controllo nel sangue delle popolazioni

Ci vuole qualche cinismo ai dirigenti politici occidentali per denunciare oggi il carattere di clan della dittatura di Saddam Hussein, il suo carattere repressivo o l'oppressione che sta esercitando sulle nazionalità che coesistono in Iraq. Infatti il peggio da quel punto di vista fu compiuto dall'imperialismo stesso quando si trattò di imporre alle popolazioni del Medio Oriente la sua autorità sulla regione e le frontiere tracciate dai suoi diplomatici.

Per questo i dirigenti dell'imperialismo francese e inglese ebbero ricorso a tutti i metodi di una colonizzazione che voleva nascondersi. Condussero delle guerre feroci, destinate ad annegare nel sangue le aspirazioni all'indipendenza e alle libertà democratiche che il crollo dei vecchi imperi regionali aveva fatto nascere nelle popolazioni. Al tempo stesso si sforzavano di aizzare le popolazioni l'una contro l'altra, senza preoccuparsi minimamente delle conseguenze a lungo termine che questo poteva comportare.

In Iraq, uno dei primi gesti della Gran Bretagna fu di introdurre un sistema di proprietà feudale della terra a profitto dei capi clan, con la speranza di conquistarsi il loro sostegno. Ma questa politica reazionaria ebbe innanzitutto l'effetto di ridurre alla servitù la schiacciante maggioranza dei contadini poveri. Questo portò nel 1920 ad un'insurrezione nel centro e nel sud del paese, tra queste popolazioni sciite sulle quali Bush e Blair oggi piangono con lacrime di coccodrilli nella speranza di conquistarsi il loro sostegno, insurrezione che fu annegata nel sangue dall'esercito britannico.

Tra l'altro, quando il regime di Saddam Hussein si è appoggiato sulla minoranza sunnita contro la maggioranza sciita della popolazione irachena, non fece altro che conformarsi ai metodi già introdotti nel 1921 dalla Gran Bretagna, quando questa fece proclamare alla testa dell'Iraq sotto mandato britannico un sovrano sunnita, e reclutò successivamente i quadri del suo apparato di Stato tra i sunniti.

Fu anche l'imperialismo inglese, di cui gli attuali rappresentanti hanno tanto spesso denunciato l'ignobile repressione esercitata da Saddam Hussein contro i curdi iracheni, a condurre allora durante due anni una guerra sanguinosa contro questi stessi curdi, con lo scopo di fare abbandonare loro ogni speranza di uno Stato nazionale curdo, perché questo era l'unico modo di fare sì che il petrolio di Mosul, situato nel loro territorio a nord dell'Iraq, possa rimanere sotto controllo franco-inglese !

Nel frattempo, nella Persia occupata dalle truppe britanniche durante la guerra e diventata di fatto, se non di diritto, un protettorato inglese, le truppe inglesi facevano subire lo stesso trattamento ai tentativi di sollevamento della popolazione, ispirati sia dalla rivoluzione russa che dalle aspirazioni nazionali delle minoranze del nord del paese. E la Francia agiva nello stesso modo sul territorio che si era attribuito, equivalente alla Siria e al Libano attuali. Un corpo di spedizione di 70 000 uomini ci fu mandato per schiacciare un sollevamento nazionalista e insediare un Libano indipendente, disegnato in modo da permettere alla borghesia cristiana maronita di conservare il potere senza dover dare il minimo diritto alla minoranza musulmana. Contemporaneamente il territorio siriano fu diviso in tre parti per tentare di aizzare l'una contro l'altra le diverse nazionalità che componevano il paese, e così indebolire il nascente nazionalismo arabo.

Fu così, in un bagno di sangue, che l'imperialismo diresse la formazione del Medio Oriente moderno. Ma questo bagno di sangue non si fermò ai primi anni che seguirono la prima guerra mondiale, e ci manca perché le popolazioni non si rassegnarono mai, né alla colonizzazione occidentale anche quando si nascondeva sotto la parola ipocrita di un "mandato" internazionale o di una cosiddetta "indipendenza" sotto stretto controllo, né soprattutto alla miseria causata dal saccheggio delle risorse regionali da parte dei consorzi occidentali.

Infatti la stabilizzazione dei regimi insediati dopo la prima guerra mondiale non era ancora raggiunta quando scoppiò la seconda. Eppure i mezzi politici e militari adoperati dalle potenze imperialiste furono numerosi. Ma, sia che avessero ricorso all'intervento diretto delle loro truppe, come la Francia in Siria o la Gran Bretagna in Egitto, sia che avessero addestrato e armato un esercito locale come lo fece la Gran Bretagna in Iraq e Iran, le rivolte popolari si successero senza che l'imperialismo riuscisse mai ad impedire che la memoria lasciata da un sollevamento prepari il terreno per quello successivo.

L'evoluzione dei metodi di dominazione dell'imperialismo

La seconda guerra mondiale fu il pretesto di un ritorno in forza delle armate imperialiste nella regione. Germania e Italia cercarono di prendere il controllo del petrolio di cui il regolamento finale della prima guerra mondiale le aveva completamente escluse, mentre la Gran Bretagna, poi gli Stati Uniti cercavano di impedirlo. Dopo, l'imperialismo cercò di anticipare le esplosioni popolari a cui poteva aspettarsi all'indomani della guerra. Ma al tempo stesso già si manifestavano le rivalità fra le grandi potenze alleate. Così nel 1943 le truppe britanniche espulsero dal Libano la delegazione militare gollista che aveva cercato di opporsi alla promulgazione di una costituzione senza riferimento al mandato francese. Nello stesso modo un corpo d'armata americana rimase per qualche tempo in Iran, lontano da ogni tipo di combattimento ma vicino ai pozzi di petrolio di Abadan allora controllati dall'Inghilterra ma adocchiati dalle compagnie petrolifere americani.

Il regolamento politico della seconda guerra mondiale non portò ad un ridisegno del Medio Oriente, almeno non in un modo così visibile come dopo la precedente. Ma mentre gli imperialismi presenti nella regione si sforzavano di reprimere le aspirazioni nazionaliste arabe che tornavano a galla, il nazismo, questo sottoprodotto abietto dell'imperialismo, stava per offrirgli una massa di manovra nel Medio Oriente, con i milioni di ebrei che non avevano più nessun luogo dove andare. Allora cominciarono le grandi manovre per fare di questa popolazione ebrea una leva contro le masse arabe. La creazione dello Stato d'Israele si trasformò rapidamente in un bagno di sangue. Nel 1948 la Gran Bretagna spinse l'Egitto, la Giordania e l'Iraq a un confronto sanguinoso col nuovo Stato, con l'unico obiettivo di difendere la sua zona di influenza regionale di fronte alla politica degli Stati-Uniti che, sostenendo Israele, cercavano ad allontanarla. Come fu dimostrato in seguito, queste rivalità interimperialiste e la successiva guerra israelo-araba, furono catastrofiche per il Medio Oriente in generale e per il popolo palestinese in particolare, poiché fu questa guerra a consacrare il trionfo del sionismo in Israele e a fare da pretesto all'espulsione della gran maggioranza di quelli che sarebbero diventati i profughi palestinesi.

Dopo la seconda guerra mondiale, lo smantellamento della zona d'influenza britannica si tradusse nella sparizione progressiva dei regimi semicoloniali che l'avevano costituita, in Egitto e Iraq negli anni '50, poi negli emirati del Golfo dal 1961 al 1971.

L'intervento dell'imperialismo negli affari regionali ha preso una forma meno diretta ma altrettanto brutale. Fino alla guerra del Golfo del 1991 non si vide più un intervento militare diretto importante dell'imperialismo nella regione, a parte un intervento americano nel Libano nel 1958 e diverse operazioni di caschi blu, sempre nel Libano, miranti a contenere la mobilitazione del popolo palestinese sotto pretesto di mantenimento della pace. In maggior parte il compito di mantenere l'ordine imperialista, cioè di proteggere il saccheggio da parte dei trust contro le masse povere, fu lasciato agli eserciti locali equipaggiati dalle grandi potenze, che seppero annegare nel sangue i movimenti popolari, come in Iran nel 1953 o in Iraq dieci anni più tardi. In quanto al mantenimento dell'ordine regionale, questo fu lasciato ai regimi come quello d'Israele, o a dittatori pronti a fare qualunque cosa per conservare la protezione dell'imperialismo, come lo scià d'Iran dopo che fu portato al potere con aiuto della CIA nel 1953, o lo stesso Saddam Hussein prima che cadesse in disgrazia nel 1990.

Certamente, da mezzo secolo le potenze imperialiste sono riuscite così ad evitare di dovere incaricarsi dello "sporco lavoro" necessario al mantenimento del loro dominio sulla regione. Ma per tanto il prezzo che le popolazioni hanno dovuto pagare per questa dominazione non è stato meno sanguinoso che durante il periodo precedente, al contrario. Lo dimostra la sorte del popolo palestinese, rinchiuso in campi di cui non si sa bene se sono campi di profughi o di prigionieri, e costretto ad una guerra quasi permanente con lo Stato di Israele. Quanto alle dittature sulle quali l'imperialismo si è appoggiato per fare i suoi lavori più bassi, si sono dimostrate tanto più brutali che erano più dipendenti dal suo aiuto militare per la loro sopravvivenza. La guerra tra Iran e Iraq, guerra punitiva contro il regime iraniano che, se non voluta, fu comunque incoraggiata dalle grandi potenze, ne è un terribile esempio col suo milioni di morti.

Ma ai milioni di morti di questo periodo che furono vittime delle guerre fraticidi ed incoraggiate dall'imperialismo, delle divisioni tra le nazionalità da lui aizzate, o della repressione brutale delle dittature infeudategli, bisogna anche aggiungere le vittime impossibili da enumerare, ma forse ancora più numerose, del freno imposto dalla dominazione imperialista allo sviluppo economico della regione. Difatti la politica dell'imperialismo nella regione non ha mai avuto altro obiettivo che di modellarla in funzione dei suoi propri bisogni. L'Iraq ha pagato questa politica non solo col sacco del suo petrolio, ma anche con l'instaurazione delle condizioni economiche sociali necessarie all'imperialismo per mantenere e sviluppare questo saccheggio, come per esempio il rafforzamento di una casta privilegiata alle spese dell'insieme della popolazione. L'economia e la società irachena sono state profondamente deformate dalla dominazione imperialista. E anche quando, all'uscita dal periodo di dominazione inglese, i regimi al potere nel paese hanno preso misure di statalizzazione, non sono riusciti, per quanto lo avessero veramente cercato, a cancellare le ferite lasciate dal periodo coloniale nell'economia e nella popolazione irachena. In tal modo che, anche prima dell'instaurazione delle sanzioni dell'Onu nel 1991, l'Iraq era già un esempio del modo in cui l'imperialismo può respingere nel sottosviluppo un paese che non era di quelli più poveri. Quanti furono gli uomini, le donne e i bambini che morirono prematuramente perché, invece di essere investiti nelle infrastrutture sociali, l'acqua potabile, l'assistenza medica ecc., i miliardi di dollari del reddito del petrolio iracheno servirono a riempire le tasche dei mercanti di cannoni imperialisti ?

L'imperialismo ha molti modi per fare pagare il prezzo della sua dominazione ai popoli oppressi, ma questi comunque lo devono pagare alla fine con la loro pelle. La guerra di Bush contro l'Iraq non fa altro che confermare questa regola.

Il ruolo delle rivalita' inter-imperialiste

Questa storia del Medio Oriente, come è stata brevemente accennata, dimostra quanto determinante fu il ruolo delle rivalità interimperialiste. Da questo punto di vista, niente è cambiato. E' cambiato solo il rapporto delle forze tra i vari imperialismi.

Durante i mesi prima della guerra attuale, l'Onu è stata l'arena di queste rivalità. E' proprio il ruolo che aveva giocato il suo antenato, la Società delle nazioni (Sdn) nel periodo tra le due guerre. All'epoca gli Stati-Uniti erano già l'imperialismo più potente nel campo economico, ma non nel campo militare. In particolare, non erano molto presenti nel Medio Oriente al momento del regolamento del primo dopoguerra. Per questo i dirigenti americani lasciarono il campo libero agli imperialismi francese e inglese, lasciandoli coprire il loro potere coloniale nella regione con la legittimazione di una cosiddetta "legge internazionale" (già all'epoca !) sotto forma di un "mandato" della Sdn.

Ma appena si presentò l'occasione, quando si trattò di dare un appoggio alla Gran Bretagna nell'arbitraggio da parte della Sdn del conflitto che la opponeva alla Turchia sulla questione del petrolio di Mosul, i dirigenti americani scambiarono questo appoggio con una partecipazione al petrolio iracheno per le loro compagnie. In seguito, mentre i due imperialismi in declino, Gran Bretagna e Francia, dovevano appoggiarsi su una presenza militare per difendere i loro interessi nella regione, gli Stati Uniti seppero servirsi della loro potenza finanziaria e della diffidenza del regime saudiano verso la Gran Bretagna per ottenere il monopolio del petrolio saudiano senza dovere imporsi con la forza.

La seconda guerra mondiale rovesciò il rapporto delle forze. Nonostante tutti gli sforzi della Gran Bretagna per occupare la maggior parte del terreno nel 1945, il suo peso non era sufficiente di fronte alle forze venute dagli Stati-Uniti. Tanto meno, tra l'altro, che i soldati britannici, a differenza delle truppe americane, avevano passato tutta la guerra a battersi nel deserto ed erano pronti a rivoltarsi se non fossero tornati rapidamente a casa. E questa volta toccò agli Stati Uniti trovarsi in posizione di imporre la partenza della totalità delle truppe francesi e di una gran parte delle truppe inglesi della regione. L'Onu che sostituì la Sdn nel 1946 ritrovò il suo ruolo di arena delle rivalità tra le grandi potenze. Ma questa volta gli Stati Uniti vi fecero la legge senza contestazione. Questo si vide per esempio quando, con l'avallo tacito degli Stati Uniti e contro la volontà della Gran Bretagna, Israele poté ignorare senza mai subirne le conseguenze le decisioni dell'Onu e i suoi piani per uno Stato palestinese.

Al pari della Sdn, l'Onu era e non è altro che lo strumento collettivo delle potenze imperialiste per imporre la loro legge al resto del modo. Ma questo strumento può funzionare come tale solo nella misura in cui, al di là delle rivalità che li oppongono, i protagonisti possono raggiungere un certo consenso, anche se questo consenso stesso è sempre l'espressione di un rapporto di forze, cioè da mezzo secolo l'espressione del carattere dominante dell'imperialismo americano.

Ma se l'imperialismo dominante non riesce ad ottenere nell'ambito dell'Onu un consenso per la politica che ha scelto lui, perché dovrebbe cercare ad ogni costo questa legittimazione se non ne ha bisogno per attuare i suoi piani, e tra l'altro se il fatto di ottenere questa legittimazione lo costringerebbe a dividersi una maggior parte del bottino con gli altri ? Bush ne ha fatto a meno nella guerra attuale, ma questa non è una novità. Clinton aveva fatto così con l'utilizzo della NATO per fare a meno dell'Onu nei Balcani. Comunque, il rapporto delle forze è tale che gli imperialismi minori non avranno altra scelta che di schierarsi più o meno rapidamente dalla parte della politica dell'imperialismo americano. Così farà Chirac come gli altri, fosse solo per assicurarsi che le compagnie francesi potranno negoziare senza intralci con i rivali americani che si divideranno i mercati e le risorse dell'Iraq.

In fin dei conti, tolte le finezze della diplomazia dell'Onu, la politica dell'imperialismo finisce sempre per apparire per quello che è realmente : la legge della giungla imposta a tutto il pianeta.

(2 aprile 2003)

Eldorado e zona di confronto delle potenze imperialiste

Col desiderio di allentare il controllo esclusivo della Gran Bretagna e degli Stati- Uniti, il regime iracheno scaturito dal colpo di stato militare del 14 luglio 1958 cercava altri interlocutori. Questi furono l'URSS e la Francia. Sin dalla metà degli anni sessanta, l'Iraq fu in questa parte del mondo il primo interlocutore commerciale di Parigi. Le relazioni diplomatiche tra Francia e Iraq, rotte nel 1956 in seguito all'intervento franco-inglese di Suez dopo la nazionalizzazione del canale da parte del presidente egizio Nasser, furono ristabilite nel gennaio 1963. "Tra noi e il popolo francese, ci sono legami che niente potrà alterare" affermò l'allora primo dirigente iracheno, il generale Kassem.

Questo riavvicinamento fu tanto più facile in quanto la Francia praticava allora una politica che si affermava indipendente -rispetto agli Stati-Uniti, s'intende- e si concretizzò nel 1967 con la sua opposizione alla guerra israelo-araba di sei giorni e con l'organizzazione di un embargo sulle vendite d'armi ai paesi in conflitto, Israele in primo luogo.

Mentre l'Iraq rompeva le sue relazioni diplomatiche con gli Stati-Uniti per causa del loro sostegno ad Israele durante questa guerra di sei giorni, le relazioni economiche con la Francia segnavano allo stesso momento una reale impennata. Da 23° fornitore dell'Iraq nel 1963, la Francia raggiunse il quinto posto nel 1968 e qualche volta il primo posto negli anni '80.

Gli industriali francesi furono presenti in quasi tutti i settori : Bouygues nell'edilizia e i Lavori Pubblici, Dassault, Giat Industries, Aerospatiale, Matra, Luchaire nell'armamento, Alcatel nelle telecomunicazioni, per parlare solo di alcune delle ditte più conosciute e più fortemente radicate in questo paese.

L'eta' d'oro

Le relazioni franco irachene raggiunsero un nuovo livello nel 1972 con la nazionalizzazione dell'Iraq Petroleum Company (IPC) in cui i capitali americano inglesi avevano la parte maggior poiché la compagnia francese CFP antenato di Total, possedeva solo un quarto dei capitali dell'IPC. Con la speranza di trovare un contrappeso all'influenza americano- inglese, il governo iracheno di cui Saddam Hussein era ancora solo il vicepresidente, si rivolse ancora una volta dalle parti della Francia, proponendole di aprire dei negoziati per tutelare i suoi interessi e più precisamente per aumentare quelli della CFP che già traeva dall'Iraq il terzo dei suoi approvvigionamenti. Finalmente e dopo molte esitazioni, il governo francese e il presidente della CFP, per non scontentare gli alleati e anche concorrenti della compagnia petrolifera francese, con cui quest'ultima già sfruttava parecchi giacimenti non solo in Iraq ma anche negli emirati del Golfo Persico, non accettarono immediatamente le proposte di Baghdad. La CFP non fu perdente, poiché in cambio della nazionalizzazione dell'IPC essa beneficiò di un indennizzo considerevole. Invece l'altra compagnia francese dell'epoca, l'Erap, che poi sarebbe diventata Elf, rientrò nel gioco iracheno grazie a contratti di fornitura di greggio a lungo termine, con prezzi molto favorevoli.

Il governo francese invece vide di buon occhio che una delegazione di dirigenti di banche franco- arabe andasse a Baghdad per studiare i mezzi di aiutare dal punto di vista finanziario il governo iracheno, o per dire le cose in modo più concreto, per studiare le condizioni di investimenti e di prestiti più redditizi. Tra queste banche c'erano tra l'altro due banche franco-arabe, tra cui l'UBAF controllata al 40% dal Crédit Lyonnais e la FRAB-BANK controllata al 25% dalla Société Générale.

Allora cominciò questa età d'oro che sarebbe durata diciotto anni, fino alla prima guerra del Golfo.

In quel periodo, Saddam Hussein era frequentabile. Secondo le parole di Chirac che lo riceveva nel settembre 75 per vendergli una centrale nucleare, era "un dirigente realista, cosciente delle sue responsabilità, preoccupato degli interessi del suo paese e del buon equilibrio di questa regione del mondo". Il mercato fu concluso un anno più tardi. La società Technicatome, una filiale del CEA (Commissariato all'Energia Atomica, francese) fu incaricata della costruzione, Bouygues fu incaricato dei grossi lavori e le Constructions Navales et Industrielles de la Méditerranée fabbricarono il cuore del doppio reattore, senza dimenticare Saint-Gobain-Tecniques Nouvelles, che fu incaricato della costruzione di parecchi laboratori annessi.

Durante il decennio degli anni '70, mentre gli investimenti francesi tendevano piuttosto a concentrarsi nei paesi più industrializzati, essi aumentarono nei paesi dell'Opec per raggiungere il 15,4% del totale degli investimenti francesi all'estero (nel 1976). Questo fu in gran parte dovuto agli investimenti in Iraq, innanzitutto nel settore petrolifero, in quello del nucleare e in quello delle telecomunicazioni.

Non importavano il nazionalismo del regime iracheno e la sua retorica antimperialista. I dirigenti occidentali sapevano benissimo che Saddam Hussein era fondamentalmente nel loro campo. Tutta la sua politica repressiva nei confronti dei comunisti iracheni, della minoranza curda, e in generale contro tutti gli oppositori, stava lì a dimostrarlo. Sotto questo aspetto il dittatore Saddam Hussein non era diverso dagli altri satrapi locali, dallo scià d'Iran o dai piccoli re della penisola arabica che apparivano come rappresentanti diretti dell'imperialismo nella regione. Ma gli occidentali gli rimproveravano sempre un'indipendenza troppo grande e relazioni troppo cordiali e frequenti con Mosca.

I buoni affari della guerra Iran-Iraq

Questo doveva cambiare, dopo che nel gennaio 1979 lo scià d'Iran fu rovesciato da un sollevamento popolare diretto dai fondamentalisti islamici sciiti. I rischi di contaminazione in tutto il Vicino e Medio Oriente erano tali che bisognava trovare una forza capace di scontrarsi con il nuovo regime iraniano. Toccò a Saddam Hussein offrire allora l'imperialismo la soluzione che cercava, quando nel settembre 1980 dichiarò la guerra all'Iran.

Le ragioni di Saddam Hussein erano certamente numerose. Era l'occasione di sperare di potere regolare definitivamente i conflitti di confine che lo opponevano all'Iran. Comunque, con questo attacco all'Iran, Saddam Hussein si schierava apertamente nel campo degli imperialisti e proponeva servigi che solo lui gli poteva offrire. Gli Stati-Uniti, capofila dei paesi occidentali, lo capirono benissimo e, senza incoraggiare apertamente i dirigenti iracheni, trovarono il modo di farlo sotto banco.

L'Onu, che si vide reagire immediatamente e gridare alla violazione delle frontiere quando più tardi l'esercito iracheno entrò nel Kuwait, non condannò Saddam Hussein per avere varcato il confine dell'Iran. Si accontentò di una risoluzione che chiamava alla fine dei combattimenti, senza neanche indicare che l'aggressore era l'Iraq.

Invece, dopo due anni di guerra, quando l'Iran ebbe la meglio e quando il suo esercito entrò in territorio iracheno, l'Onu chiamò al rispetto delle frontiere. L'Onu mantenne anche un silenzio pesante durante parecchi anni rispetto all'uso da parte dell'esercito iracheno di armi chimiche. E quando alla fine l'Onu condannò l'utilizzo dei gas, cinque anni dopo l'inizio della guerra, ebbe la cortesia di non indicare che il colpevole era l'Iraq.

Paragoniamo questo atteggiamento con l'invio di ispettori per dimostrare l'esistenza di "armi di distruzione di massa" che comunque non sono ancora state trovate !

I servigi resi all'epoca da Saddam Hussein erano tali che ovviamente nessuno parlò di boicottarlo. Fu anche il contrario, poiché le vendite d'armi, già cominciate qualche tempo prima, aumentarono alla grande soddisfazione di tutti i mercanti di morte.

Per gli industriali francesi dell'armamento questa manna era inaspettata. Dassault con i suoi Mirage, Aerospatiale con i suoi elicotteri e i suoi missili, Matra con i suoi missili, Giat e Panhard con le munizioni, Thomson con i suoi radar e le sue attrezzature elettroniche, fecero affari d'oro. Secondo il presidente dell'associazione franco-irachena di cooperazione economica "prima della crisi del Golfo questo era enorme : 4 miliardi di dollari di esportazioni per anno". Di più, molte transazioni commerciali e finanziarie rimasero nascoste e non entrarono in nessuna contabilità, nel campo dell'armamento tra l'altro, poiché molti industriali, e non di quelli più piccoli, non avevano nessuno scrupolo rispetto ai destinatari e vendevano tanto all'Iraq quanto all'Iran. Fu il caso della ditta Luchaire che, tra il 1982 il 1986 esportò verso Teheran 384 400 obici di 155 mm teoricamente destinati al Portogallo, al Brasile, alla Thailandia e alla Iugoslavia, e 55 000 obici di 203 mm che sarebbero pervenuti in Thailandia secondo i certificati di destinazione. Ma per uno scandalo rivelato, quanti sono rimasti nascosti ?

La guerra Iran-Iraq fu un vero macello che doveva durare otto anni, otto anni di morte, di sofferenze per le popolazioni, otto anni di prosperità per i mercanti d'armi. La Francia, anche se ebbe una parte importante in questo sinistro mercato, ovviamente non fu l'unica, e non da poco. Non c'era all'epoca un campo della guerra o un campo della pace, c'era solo il campo dei buoni affari che si alimentava da uno dei più sanguinosi macelli di questa seconda metà del XX° secolo.

Ovviamente non si possono elencare tutti quelli che si precipitarono a Baghdad per offrire i loro servigi o le loro merci, la lista sarebbe ben troppo lunga. Ma non si possono dimenticare le ditte italiane CNIA-Technit e Ansaldo Meccanica Nucleare che, accanto alle ditte francesi, parteciparono anche loro alla costruzione del sito nucleare di Tammuz. La filiale di Atlanta della Banca Nazionale del Lavoro aprì un credito di 3,8 miliardi di dollari all'Iraq. Tra le ditte che hanno beneficiato di questo credito ci sono la Lummus Crest (Stati-Uniti), Mannesmann (Germania) e Matrix Churchill (Gran Bretagna). Tutte avrebbero consegnato materiale militare a Baghdad.

La Germania non rimase indietro. Due filiali del gruppo chimico Degussa venderono all'Iraq i processi di fabbricazione di prodotti gasosi ad uso militare che Saddam utilizzò nella guerra che lo opponeva all'Iran, e anche contro la popolazione civile curda nel 1988.

Anche gli Stati-Uniti

E poi come non parlare degli Stati-Uniti ? Anche prima che questi ristabilissero relazioni diplomatiche col governo di Baghdad, l'amministrazione Reagan s'impegnò in un forte sostegno all'Iraq, quando dopo un anno di guerra con l'Iran l'esercito iracheno dovette subire violenti contrattacchi iraniani. Il diplomatico americano Richard Murphy si espresse molto direttamente in questi termini : "il nostro obiettivo era di badare che l'Iran non uscisse da questa guerra come capofila di un movimento radicale antioccidentale nel Medio Oriente. Inoltre l'Iraq era ovviamente un mercato interessante per gli esportatori americani."

Nel dicembre 1983 Reagan inviò a Baghdad un certo Donald Rumsfeld, oggi ministro della difesa di George W. Bush, per trasmettere a Saddam Hussein l'offerta della Casa Bianca di ristabilire le relazioni diplomatiche. Era l'epocaa in cui l'Iraq cominciava a bombardare con armi chimiche l'esercito iraniano. Ovviamente ci fu qualche protesta, rapidamente soffocata dall'amministrazione americana, e gli affari continuarono a prosperare.

Sin dal 1985 gli Stati-Uniti consegnarono a Baghdad le immagini dei satelliti sulle posizioni dell'esercito iraniano. Soprattutto, quell'anno fu fondata l'"US Iraq business Forum" con come principali partecipanti la Westinghouse, la Mobil Oil o gli agricoltori del Middle West, tutti pronti a vendere i loro vari materiali o il loro grano all'Iraq. Una potente lobby filoirachena era ormai in posto negli Stati-Uniti. Tutto si poteva vendere e non importava se questi materiali erano detti "sensibili" o "riservati" perché includevano alte tecnologie. Documenti ufficiali pubblicati in seguito hanno dimostrato che una serie di sostanze patogeni e tossiche sono state inviate del tutto legalmente in Iraq tra il 1985 e il 1989. Un rapporto del Senato dell'ottobre 1988, esaminando i metodi di sterminio di Saddam e le responsabilità americane, concludeva che "l'assenza di relazioni internazionali ha incoraggiato l'Iraq a fare un uso intensivo delle armi chimiche". Alcune sanzioni imprecisi furono votate da questo stesso Senato, di cui non tennero nessun conto né Reagan, né più tardi il suo successore George Bush senior. Chiaramente, non solo la responsabilità dell'amministrazione americana era fortemente coinvolta nella detenzione da parte dell'Iraq di armi chimiche, quelle che vengono chiamate oggi le armi di distruzione di massa, ma gli elicotteri che permisero di sganciarle, sulla popolazione curda in particolare l'altro, furono forniti anche loro dagli Stati Uniti che, nel 1983, avevano ancora approvato la vendita all'Iraq di 60 elicotteri Hugues e di 10 elicotteri Bell.

Nel gennaio e febbraio 1988 il dipartimento del commercio americano autorizzò anche l'esportazione di elementi che permettevano ai militari iracheni di aumentare la portata dei loro Scud, fino a permettere loro di raggiungere il centro dell'Arabia Saudita e le principali città d'Israele.

Quando Saddam Hussein rivendicava di essere pagato

La guerra tra l'Iraq e l'Iran finì nell'agosto 1988. Non ci fu vincitore, soltanto regioni intere distrutte, popolazioni dissanguate, martirizzate, più di un milione di morti, economie rovinate, Stati fortemente indebitati. Il governo iracheno ebbe un bel ergersi a difensore dell'ordine imperialista, sacrificare il suo popolo, e il popolo dell'Iran, in un'immenso macello che ricordava quello della prima guerra mondiale, ma per tanto mai gli imperialisti gliene furono riconoscenti. Lo Stato iracheno era vicino alla bancarotta, il suo indebitamento era colossale. Non importava : doveva rimborsare !

Nel 1980, prima dello scoppio della guerra con l'Iran, l'Iraq disponeva di una riserva di cambio di 15 miliardi di dollari. Quando le ostilità cessarono nel 1988, i debiti esteri dell'Iraq ammontavano a 75 miliardi di dollari, tra cui 30 miliardi verso i tre paesi del Golfo. Il debito rispetto alla Francia rappresentava il 10% del debito totale e ammontava a quasi 7,5 miliardi di dollari. Le principali ditte francesi che avevano investito o fatto commercio con l'Iraq non ebbero certamente da preoccuparsi per questo piccolo particolare, poiché la maggior parte dei contratti, o almeno quelli più importanti, erano garantiti dallo Stato francese, tramite la società statale d'assicurazione delle esportazioni, la Coface. Nel deficit cumulato di 150 miliardi raggiunto dalla Coface alla fine degli anni '80 si trovavano certamente molti debiti contrattati in Iraq da numerose ditte francesi. Non ebbero difficoltà ad essere pagate, lasciando allo Stato francese il compito di farsi rimborsare dallo Stato iracheno.

Così strozzato da tutte le parti, in particolare dal Kuwait che non solo praticava una politica di dumping sui prezzi del greggio, il cui risultato era di diminuire le entrate petrolifere dell'Iraq, ma di più esigeva il rimborso immediato del debito iracheno, Saddam Hussein si trovò in un vicolo cieco di cui pensò di uscire con invasione dell'ingrato Kuwait. I governanti occidentali, in primo luogo quello degli Stati-Uniti, non accettarono che una delle loro creature, che aveva beneficiato per la sua dittatura del loro sostegno e della loro indulgenza, decidesse così di rivolgersi contro loro, prendendo il controllo di una delle loro riserve di caccia. Saddam Hussein vide quindi coalizzarsi contro di lui tutto ciò che la terra contava di potenze imperialiste, senza dimenticare i loro valletti.

Dopo più di un mese di bombardamenti di massa e quattro giorni di combattimenti a terra, l'esercito iracheno fu sconfitto, ma non annientato. Bush senior ebbe la cura di non far cadere il regime iracheno. Eppure era ben vicino di crollare, con il sollevamento contemporaneo dei Curdi del nord e della popolazione del sud, nelle regioni a maggioranza sciita. Nel marzo 1991, quindici delle diciotto province dell'Iraq si erano sottratte totalmente o parzialmente al controllo del potere centrale. Ma gli eserciti occidentali non si mossero, ed aspettarono che le truppe irachene avessero schiacciato gli insorti. Peggio, il comando americano autorizzò Saddam Hussein ad inviare la Guardia repubblicana contro gli insorti, e ad utilizzare tutto il suo materiale militare, anche quello vietato dal cessate-il-fuoco : elicotteri ed armi chimiche. Fu quindi con la complicità degli americani, dei britannici e dei francesi che Saddam Hussein poté assassinare i curdi e gli sciiti. Gli occidentali non volevano la caduta del regime a qualunque prezzo, e comunque non al rischio di vedere svilupparsi una situazione esplosiva dopo il suo crollo.

Sotto l'embargo

Pochi paesi sconfitti hanno dovuto come l'Iraq subire tanto a lungo un embargo, ancora più micidiale del conflitto che lo aveva preceduto. Tutte le cifre, pubblicate a quel proposito da numerosi organismi ufficiali, sono spaventose. I redditi del petrolio erano prima dell'embargo di 20 miliardi di dollari annuali. Otto anni dopo, rimanevano sotto i 2 miliardi. Nel 1990 l'Iraq rispondeva ai criteri dell'Organizzazione mondiale per la salute, l'OMS, dedicandoci 30 dollari al mese per abitante. Questa somma cadde a due dollari, ossia un ribasso nel 93%. L'Unicef e la commissione dei diritti sociali e economici delle Nazioni Unite valutarono ad 1,3 milione il numero dei bambini di meno di cinque anni morti per causa dell'embargo, la mortalità infantile passando dal 24 per mila al 92 per mila. Un milione di bambini non andavano più a scuola. Su 5 milioni di bambini di meno di cinque anni, un milione non godranno mai di facoltà mentali normali, per mancanza di proteine nella loro alimentazione.

L'accordo "petrolio in cambio di cibo" concluso nel 1995 non ha risolto niente. E' servito prima e innanzitutto a pagare i debiti di guerra, in primo luogo al Kuwait, poi tutte le spese dei controlli ai quali l'Iraq è stato sottomesso. Fatte tutte queste sottrazioni, non rimaneva più all'Iraq che il 20% del valore delle sue esportazioni petrolifere, cifra data dal coordinamento internazionale contro l'embargo. E poi, questo è stato ricordato tante volte, l'Iraq non poteva importare il necessario per riparare le sue infrastrutture distrutte, col pretesto che la maggior parte dei materiali industriali potevano anche essere utilizzati a fini militari. Anche le pompe d'acqua di una certa potenza erano vietate.

E perché tutte queste sanzioni ? Per indebolire il regime, come pretendevano quelli che le mantenevano ? Certamente no ! Rispondendo a questa menzogna, l'ex responsabile agli aiuti umanitari delle Nazioni Unite s'indignava : "qual'è l'obiettivo delle sanzioni ? Indebolire il regime ? Posso affermarvi che hanno avuto l'effetto contrario. Hanno sicuramente consolidato il regime, perché la popolazione ne dipende sempre di più".

Ma pur drammatica che sia stata questa realtà, ha lasciato posto ad un'altra ancora peggiore : quella del sangue, delle lacrime, delle distruzioni di massa, risultati di questa guerra imposta oggi all'Iraq.

Dopo l'embargo, la speranza dei buoni affari.

Durante tutto il periodo tra la prima e la seconda guerra del Golfo, il periodo delle sanzioni, le discussioni per eventuali investimenti e scambi commerciali proseguirono praticamente senza interruzione, anche se non potevano arrivare ad una conclusione,. L'Iraq non era più l'Eldorado di prima ma lo poteva ridiventare. E nell'attesa di questo momento, i rappresentanti delle grandi ditte occidentali si sono fatti avanti a forza di spintoni presso le autorità irachene e del comitato delle sanzioni dell'Onu che, assumendosi la responsabilità dell'embargo, autorizzava o non le transazioni economiche e finanziarie con l'Iraq.

Le ditte francesi erano piuttosto in buona posizione poiché dal dicembre '96 al giugno 2000 avevano ottenuto un'ammonto cumulato di contratti per più di 3,5 miliardi di dollari. Una commissione del Senato incaricata di valutare gli scambi economici con l'Iraq esprimeva la sua soddisfazione, sottolineando in un rapporto che, durante il periodo indicato "le nostre imprese possedevano il 15 per 100 circa di questo mercato". E respingendo alcune riserve il rapporto proseguiva : "anche se questa situazione eccezionale e notevole si è degradata quando le autorità irachene hanno fatto la scelta dell'opzione araba che privilegiava l'approccio regionale e geografico, sarà sempre possibile fare offerte di contratti tramite le filiali radicate nei paesi arabi ormai favoriti da Baghdad". Infine il rapporto concludeva ottimisticamente : "tuttavia questo ribasso potrebbe essere solo apparente e dipende dalla presentazione statistica ritenuta dal governo iracheno. In termini di flussi commerciali, la Francia rimane il primo fornitore dell'Iraq nel 2000 et 2001 con il 14% di parti di mercato."

Più concretamente i gruppi francesi Alcatel e Sagem avevano firmato alla fine dell'anno 2000 un contratto nel campo delle telecomunicazioni per un valore di 77 milioni di dollari. TotalFinaElf, che nutriva grandi speranze in una fine dell'embargo, aveva negoziato anche lui (ma non ancora firmato) due contratti per lo sfruttamento di importanti campi petroliferi del sud del paese, questo per un valore di 4 miliardi di dollari ciascuno. I due principali costruttori automobilistici Peugeot e Renault erano anche presenti fra i candidati per la fornitura di veicoli utilitari.

La guerra e la nuova situazione.

Ma tutti questi piani elaborati a lungo e con pazienza sono stati ridotti a niente dalla guerra. Nessuno può dire oggi di cosa sarà fatto il futuro ma gli scenari attualmente discussi da molti commentatori, e qualche volta dai governanti stessi, sono di un cinismo tale che ad ascoltarli si potrebbe anche dimenticare che questo futuro si sta scrivendo in questo momento col sangue della popolazione irachena.

Chiaramente, questa guerra sa di petrolio. Fino a questa parte le ditte americane sono state relativamente poco radicate in Iraq, benché questo paese avesse riserve considerevoli, stimate a 112 miliardi di barili, ossia più del 10% delle riserve mondiali. Una guerra vittoriosa non può che dare a quelli che la vincono un controllo di tutte queste ricchezze, direttamente o tramite governi fantocci.

Siamo ben lungi dalle armi di distruzione di massa da bandire, da una cosiddetta democrazia da portare al popolo iracheno liberandolo dal controllo di un sanguinoso dittatore. Si tratta piuttosto per i soli Stati Uniti di cercare a stabilire un controllo esclusivo sulle zone e le vie d'approvvigionamento in idrocarburi nel Medio Oriente e in parecchie ex repubbliche dell'Unione sovietica.

E si vede con quale arroganza il governo americano discute già ora, o piuttosto non discute, della ricostruzione dell'Iraq. Nonostante oggi il mercato della ricostruzione sia ancora per il futuro, è già tra le mani delle sole imprese americane. Ai britannici rimarrà solo una parte dei lavori d'appalto, e agli altri niente o quasi niente.

Appena cominciata la guerra, l'amministrazione americana attribuiva già i primi contratti di ricostruzione. Così l'Usaid (l'agenzia americana per un sedicente aiuto internazionale) ha firmato un accordo con un'impresa di Seattle per il ripristino e la gestione del porto di Um Qasr. Kellogg Brown & Root, filiale di Haliburton, una ditta di cui l'attuale vice-presidente americano Dick Cheney era l'amministratore, ha avuto il mercato dell'estinzione e del riavviamento dei pozzi di petrolio iracheni. Un gruppo privato americano amministrerà gli ospedali e le cliniche del paese, almeno quelli che saranno redditizi. La riparazione delle strade, ponti, porti, aeroporti e di altri edifici pubblici ritenuti indispensabili, sarà anche data alle imprese americane. Tra l'altro, a quel proposito, l'amministratore dell'Usaid ha dichiarato : "abbiamo selezionato direttamente le ditte che reagiscono rapidamente e hanno ottenuto le certificazioni di sicurezza ritenute indispensabili dal Pentagono. Solo le imprese americane li hanno. Siamo comunque tenuti dalla legge di fare appello solo ai gruppi americani come primi contrattanti."

Così le cose sono molto chiare. La concorrenza fra le firme americane e le altre, legate agli Stati di potenza minore, si regola a vantaggio delle prime, e questo grazie al rapporto delle forze imposto dalla potenza dello Stato che li sta rappresentando.

(2 aprile 2003)

La Turchia e il conflitto iracheno

Nel piano d'azione militare preparato da più di un anno dall'amministrazione americana per attaccarsi all'Iraq sembrava a priori che un elemento non avrebbe posto nessun problema : l'appoggio della Turchia. Ma il voto del parlamento di Ankara il 1° marzo, rifiutando di autorizzare il transito delle truppe americane tramite il territorio turco, e finalmente la decisione del governo turco di aprire all'esercito americano solo il suo spazio aereo e non il passaggio sul suo territorio, sono stati una cattiva sorpresa per gli strateghi americani.

Questi, costretti di cambiare all'ultimo momento i loro piani, hanno dovuto fare rimbarcare i 62 000 soldati americani che dovevano, passando per la Turchia, aprire un secondo fronte a nord dell'Iraq.

Ma al di là del ritardo che ne risulta dal punto di vista militare, questo atteggiamento della Turchia sta forse annunciando altre difficoltà ben più gravi. Infatti, conferma che con l'attacco all'Iraq, gli Stati Uniti stanno anche riaccendendo tutta una serie di conflitti all'interno del paese e con gli Stati circondanti.

L'enclave curda del nord dell'Iraq.

La situazione nel Kurdistan d'Iraq, confinante con l'Iran e la Turchia, è ovviamente per quest'ultima il primo motivo di divergenza con gli Stati Uniti. Deriva direttamente dalle circostanze della prima guerra del Golfo. Quando nel marzo 1991 le truppe americane cacciarono le truppe irachene dal Kuwait che stavano occupando, le popolazioni curde del nord dell'Iraq, così come le popolazioni sciite del Sud, presero sul serio gli appelli alla rivolta lanciati dai dirigenti americani. In pochi giorni, dopo il 5 marzo 1991, l'insieme del Kurdistan iracheno si sollevò e l'esercito di Saddam Hussein abbandonò il terreno quasi senza combattere.

Ma i responsabili americani preferivano finalmente dovere fare i conti con Saddam Hussein piuttosto che con un potere iracheno che si sarebbe appoggiato sulle masse in rivolta. Con un cinismo perfetto, decisero quindi di non proseguire la loro offensiva verso Baghdad e di lasciare all'esercito di Saddam Hussein il diritto di utilizzare i suoi elicotteri di combattimento e l'artiglieria pesante contro la sua propria popolazione. Così fu fatto. Le rivolte sciita e curda furono annegate nel sangue. Al Nord, centinaia di migliaia di persone, scappando dalle grandi città riconquistate dall'esercito di Saddam Hussein, si precipitarono verso la frontiera e cercarono rifugio dall'altra parte in Turchia.

Fu solo a quel momento, poiché la Turchia rifiutava l'entrata di questi profughi sul suo territorio, e di fronte ad una situazione in cui centinaia di migliaia di persone rimanevano intrappolate nelle montagne del Kurdistan tra l'esercito di Baghdad è quello di Ankara, che i dirigenti americani decisero l'instaurazione di una zona d'esclusione aerea, vietando l'intervento dell'esercito di Baghdad nel Kurdistan d'Iraq e permettendo alle milizie curde di ristabilire un potere precario, sotto protezione americana.

Fu quindi a malavoglia, e dopo di avere lasciato i militari iracheni esercitare la repressione, che i dirigenti americani lasciarono un potere curdo sistemarsi su uno stretto territorio, a ridosso delle frontiere turca e iraniana e fuori dalle due grandi città di Mosul e Kirkuk, da cui l'esercito iracheno aveva cacciato una gran parte della popolazione curda.

In seno all'enclave curda il potere fu diviso tra i due principali partiti curdi, il partito democratico del Kurdistan (PDK) di Masud Barzani e l'unione patriottica del Kurdistan (UPK) di Jalal Talabani, due partiti appoggiati da milizie costituitesi in gran parte sulla base dei vari clan della società curda e in realtà in gran parte fuori dal controllo della popolazione. Secondo i soliti metodi dei dirigenti curdi, Barzani e Talabani si contendevano il potere, ognuno cercando ad ottenere l'appoggio dell'Iran, della Turchia, della Siria o anche del potere iracheno contro il rivale.

Nel 1992, dopo che la guerriglia del PKK avesse cercato a prendere piede a Nord dell'Iraq per crearvi delle basi dalle quali condurre la sua battaglia in nome dei curdi di Turchia contro l'esercito di Ankara, le incursioni turche in Iraq dirette contro il PKK si moltiplicarono. La Turchia fece capire a Barzani e Talabani che dovevano incaricarsi loro stessi di ricondurre alla ragione il PKK, se non volevano vedere l'esercito turco farlo al loro posto ed occupare la zona curda. Talabani e Barzani ubbidirono e si videro quindi le milizie curde irachene fare la guerra alle milizie curde turche del PKK, prima di farsi la guerra direttamente tra di loro, nel 1994, per il controllo delle loro zone rispettive e in particolare delle tasse prelevate sulle esportazioni di petrolio.

Fu in seguito a questi conflitti che un certo equilibrio finì per stabilirsi nella zona curda, tra le milizie del PDK a Nord-ovest lungo il confine turco, e le milizie dell'UPK ad est lungo il confine iraniano. Al tempo stesso, grazie alla collaborazione aperta tra Barzani, Talabani, il governo turco e la CIA, il PKK era privato delle sue basi in Iraq e anche in Siria, poi praticamente sconfitto dalla repressione dell'esercito di Ankara in territorio turco.

Questo fragile potere curdo poggiava quindi su una specie di neutralizzazione reciproca, sotto protezione americana, tra i governi turco, iracheno, iraniano e siriano, e sulla complicità e il gioco di bilancia fatto dai dirigenti curdi iracheni tra questi vari protettori. Questa situazione dava anche ai dirigenti curdi delle fonti di reddito relativamente importanti con il prelievo di tasse sulle importazioni e le esportazioni irachene, petrolifere in particolare, attraverso le frontiere turca e iraniana. Questo periodo di autonomia di fatto del Kurdistan d'Iraq doveva portare quindi ad un certo miglioramento della situazione economica e del clima politico, almeno rispetto ai durissimi periodi che lo avevano preceduto.

La Turchia e i progetti degli Stati Uniti contro l'Iraq

Quando il potere americano cominciò ad elaborare i suoi piani per attaccarsi all'Iraq, disponeva quindi da molto tempo di appoggi nella zona curda, che gli erano già serviti, tra l'altro, per tentare di organizzare senza successo complotti per rovesciare Saddam Hussein.

I rappresentanti americani erano quindi sicuri di avere il sostegno dei dirigenti curdi come Barzani e Talabani, che comunque non gli potevano rifiutare niente. Ma avevano anche bisogno dell'appoggio della Turchia. Anche lì, potevano pensare che il sostegno del regime di Ankara, uno dei loro primi e più fedeli alleati nella regione, era scontato.

Di più, i dirigenti americani non mancano di mezzi di pressione sulla Turchia. Il paese sopporta un enorme debito estero, oggi di circa 150 miliardi di dollari, la cui crescita ha già innescato parecchie crisi finanziarie successive. Solo l'atteggiamento dell'FMI, che ogni volta ha stanziato i crediti necessari perché lo Stato turco potesse fare fronte ai suoi impegni, ha permesso alla Turchia di evitare una bancarotta simile a quella dell'Argentina. Ma questo significa che il mantenimento di un minimo di equilibrio delle finanze turche dipende dalla buona volontà dei finanzieri e dei dirigenti americani, che non mancano mai di farlo capire. E infatti i dirigenti turchi non hanno mai mancato in questi anni di appoggiare la causa degli Stati Uniti. Hanno anche ostentato il loro riavvicinamento con Israele, con chi hanno condotto manovre militari comuni che apparivano come una minaccia diretta per i paesi arabi come la Siria.

Infatti sembra che sin dai loro primi contatti su questo punto con i dirigenti turchi, gli Stati Uniti avessero ottenuto una garanzia di appoggio turco in caso di un attacco contro l'Iraq. Ma questo significava trascurare due punti : prima, questa garanzia veniva data dal governo di Ecevit, un governo usato e discreditato che doveva perdere il potere dopo le elezioni turche del 3 novembre 2002, e il cui impegno politico non aveva più nessun valore. E d'altra parte, toccare all'Iraq, e in particolare al Kurdistan, significava anche toccare un punto particolarmente sensibile per la borghesia turca, un punto sul quale la sua concezione dei suoi interessi non avrebbe coinciso necessariamente con quella degli Stati Uniti.

La vittoria dell'AKP alle elezioni del 3 novembre

Fu in queste condizioni che le elezioni turche del 3 novembre scorso portarono alla vittoria del partito AKP (Adalet ve Kalk nma Partisi - Partito della giustizia e dello sviluppo) un cosiddetto partito "islamista moderato". Più che l'espressione di una vera ondata islamista, questo successo era una sconfessione del governo precedente, una coalizione del partito della sinistra nazionalista di Ecevit e di un partito d'estrema destra, il cui regno era stato segnato da parecchie crisi finanziarie, dalla continuazione di un inflazione del 100% l'anno circa, da misure di austerità successive e da numerosi scandali dovuti alla corruzione. Tutti i partiti partecipanti al governo precedente erano eliminati dal parlamento nel quale non si trovavano più che l'AKP e uno dei partiti socialdemocratici, il CHP, superstite per non essere stato parte della coalizione di governo, almeno nell'ultimo periodo.

Ma all'indomani di queste elezioni i dirigenti del nuovo partito non si mostrarono molto entusiasti per prendere posizione sulla guerra. Appartenenti in maggior parte alla nuova generazione dei dirigenti del partito islamista tradizionale di Erbakan, apparendo come uomini nuovi e non troppo compromessi, beneficiando di un clima d'attesa piuttosto favorevole, non volevano apparire come fautori ad ogni costo di una guerra molto impopolare nell'opinione turca. Fecero quindi la scelta di aspettare, e in particolare di mercanteggiare il prezzo di una partecipazione della Turchia alla guerra. La prima guerra del Golfo contro l'Iraq e la partecipazione turca a questa non hanno lasciato ad Ankara solo buoni ricordi. Le sole perdite dovute alla diminuzione del mercato regionale rappresentato dall'Iraq per l'economia turca sono state stimate a parecchie decine di miliardi di dollari, che sono stati solo parzialmente compensati dagli aiuti degli Stati Uniti. Il commercio attraverso il confine turco-iracheno non si è ristabilito che molto parzialmente, per causa dell'embargo e dell'accordo "petrolio in cambio di cibo", e la nuova guerra significa almeno nell'immediato un nuovo crollo di questo mercato.

Appoggiandosi quindi sulle conseguenze economiche di questa prima guerra del Golfo, i dirigenti turchi chiesero agli Stati Uniti decine di miliardi di dollari di compensazioni. Al tempo stesso, si sentivano voci, negli ambienti dirigenti, per dire che anche al di là di questa discussione finanziaria, comunque una partecipazione alla guerra non era nell'interesse della Turchia : un intervento americano in Iraq poteva portare ad un'autonomia, o addirittura all'indipendenza dei curdi del Nord dell'Iraq, e quindi ad incoraggiare o a dare un appoggio ai movimenti autonomisti tra gli stessi curdi di Turchia. Il pericolo per la Turchia era anche di vedere un eventuale Stato curdo sistemarsi e controllare, in collaborazione con gli Stati Uniti, le risorse petrolifere delle regioni di Mosul e Kirkuk, sulle quali la Turchia ha vecchie rivendicazioni. E poi non era neanche interesse della Turchia apparire come il primo difensore degli Stati Uniti nella regione, a rischio di alienarsi l'opinione araba e musulmana e di compromettere le sue possibilità di aumentare la sua influenza politica e economica nel Medio Oriente.

Infine il contesto internazionale, e in particolare le reticenze affermate da una parte dei paesi europei al progetto di guerra in Iraq, non potevano che incoraggiare una frazione della borghesia turca a prendere le distanze dalla politica americana, inaugurando una specie di gioco di bilancia tra gli Stati Uniti e l'Europa. Dopo di essersi serviti dell'appoggio americano per tentare di vincere le reticenze dell'Unione Europea ad accettare la Turchia nel suo seno, i dirigenti turchi trovavano questa volta nelle reticenze europee rispetto alle pressioni americane un punto d'appoggio per resistere agli Stati Uniti.

Nonostante tutto questo, il governo turco e più particolarmente lo Stato Maggiore continuavano di assicurare gli Stati Uniti del loro appoggio ad un intervento contro l'Iraq... fino al voto a sorpresa dell'assemblea nazionale in cui mancarono solo tre voti per decidere di autorizzare il transito delle truppe americane tramite il territorio turco per attaccare l'Iraq dal Nord.

Le divergenze tra Turchia e Stati Uniti

Così si è arrivati a questa situazione inaspettata in cui, per settimane, le navi americane hanno dovuto rimanere al largo della Turchia, aspettando per farci sbarcare le loro truppe. Lo Stato Maggiore dell'esercito turco, da parte sua, autorizzava l'esercito americano a fare transitare una parte del suo materiale almeno verso le basi da esso affittate in territorio turco. Al tempo stesso si parlava di fare votare di nuovo il parlamento di Ankara.

Ovviamente le discussioni continuavano tra rappresentanti turchi e americani sulle condizioni di un appoggio turco alla guerra. In questo negoziato gli scogli erano evidenti, anche se non si conoscono tutti i particolari : prima gli Stati Uniti non si impegnavano chiaramente sulle compensazioni finanziarie che sarebbero state date alla Turchia ; poi non si impegnavano neanche sul futuro del Kurdistan d'Iraq ; e infine, e mentre la Turchia affermava la sua volontà di entrare in territorio iracheno per stabilire al suo confine, a titolo di garanzia, una zona neutra controllata dalle sue truppe, gli Stati Uniti facevano sapere la loro opposizione a questa entrata dell'esercito turco in territorio iracheno.

Si può vedere in questo atteggiamento poco comprensivo degli Stati Uniti nei confronti dell'alleato turco il marchio dell'arroganza dell'amministrazione Bush. C'è innanzitutto il fatto che, comunque, era difficile fare promesse ai Curdi d'Iraq, e al tempo stesso dare ai turchi la garanzia che non avrebbero appoggiato le rivendicazioni curde ! Ma c'è forse anche in questo atteggiamento una forma di complicità tra gli Stati Uniti e la Turchia, poiché i primi oggi hanno bisogno del sostegno dei curdi per la loro offensiva in Iraq, ma sono senz'altro pronti ad abbandonarli domani di fronte alle truppe turche o di fronte a quelle della nuova dittatura che avranno insediata a Baghdad. Non sarebbe certamente la prima volta che i curdi farebbero così le spese di un contratto concluso alle loro spalle da quelli stessi che gli avevano promesso il loro appoggio.

Comunque, per il momento, la situazione ha portato ad una tensione tra gli Stati Uniti e la Turchia. Questa alla fine si è limitata ad autorizzare l'utilizzo del suo spazio aereo da parte dell'esercito americano. I dirigenti americani hanno perso pazienza e fatto prendere alle loro navi che aspettavano al largo la strada del sud dell'Iraq tramite il canale di Suez, mentre le truppe US già in posto in territorio turco si ripiegavano per prendere la stessa strada.

Verso un intervento turco ?

Ovviamente c'è nell'atteggiamento americano una forma di ricatto nei confronti del regime turco : in assenza di collaborazione militare, sono anche le decine di miliardi di dollari di aiuto americano che potrebbero mancare alle finanze di Ankara. E difatti l'atteggiamento turco rispetto all'offensiva americana in Iraq ha immediatamente portato ad una sfiducia dei mercati finanziari nei confronti della Turchia, e alla caduta immediata della moneta turca. E forse sarà un regime in piena crisi finanziaria che non avrà domani altra soluzione che di ubbidire senza discutere a tutte le condizioni americane.

Ma nella situazione creata dalla guerra in Iraq ci sono anche altre possibilità. I generali turchi hanno preso le loro disposizioni per far fronte ad ogni eventualità, raggruppando al confine dell'Iraq truppe pronte ad entrare nel paese. In funzione dell'evoluzione della guerra, queste truppe possono fare movimento verso il Kurdistan d'Iraq per affrontare le milizie curde che giudicherebbero troppo audaci. Possono anche prendere posizione per controllare a lungo, in territorio iracheno, il perimetro di sicurezza che sarà ritenuto necessario del governo di Ankara. E infine i generali turchi possono essere tentati di andare ad occupare le regioni petrolifere di Mosul e Kirkuk, di cui ritengono che la Turchia è stata frustrata al momento della divisione del Medio Oriente all'indomani della prima guerra mondiale. Questo si potrebbe fare col pretesto della difesa dei diritti della minoranza turcomanna che abita queste regioni, e di cui Ankara si proclama periodicamente il protettore.

Ovviamente un tale atteggiamento significherebbe per i dirigenti turchi andare oltre ai moniti americani contro un'azione dell'esercito turco in territorio iracheno. Ma potrebbero prenderne il rischio, pensando che comunque gli Stati Uniti, impanati in Iraq, non avrebbero veramente i mezzi di opporsi, o che comunque sarebbe sempre tempo di negoziare il loro ritiro dopo, per esempio contro delle partecipazioni allo sfruttamento del petrolio delle regioni coinvolte.

Un tale intervento comunque non sarebbe altro che creare nel Nord dell'Iraq una situazione simile a quella di Cipro, dove nel 1974 l'esercito turco è intervenuto col pretesto di difendere la minoranza turca dell'isola, minacciata da un colpo di Stato dei fautori dell'unione con la Grecia. Ventinove anni dopo, l'esercito turco è sempre presente e protegge il potere quasi mafioso che regna in una "Repubblica turca di Cipro del nord" riconosciuta solo da Ankara. L'avventurismo militare dei generali turchi ha quindi dei precedenti, e potrebbero sentirsi autorizzati a darvi libero corso, vedendo che oggi la prima potenza del mondo stessa ne dà prova senza scrupolo. Potrebbero anche sentirsi spinti dalla crisi economica e finanziaria in Turchia stessa. Il governo dell'AKP, anche se al potere da meno di sei mesi, ha già speso gran parte del suo credito politico, in particolare con le misure di austerità che ha cominciato a prendere a sua volta per provare a mettere fine alla crisi finanziaria.

I generali turchi si getteranno alla loro volta in un'avventura militare in Iraq ? Ovviamente, questo dipenderà innanzitutto dal corso che prenderà l'intervento militare americano-britannico, ma anche dell'importanza della crisi politica e finanziaria in Turchia. Comunque, dando col suo intervento il segnale del saccheggio delle ricchezze dell'Iraq, George W. Bush avrà aperto la possibilità di una tale "guerra nella guerra". Dal Kurdistan d'Iraq alla Turchia, dai vari paesi arabi all'Iran, l'apprendista stregone americano ha forse acceso con la sua avidità e la sua brutalità, la miccia di una serie di conflitti regionali dagli sviluppi imprevedibili.

(4 aprile 2003)