Relazione sulla situazione internazionale

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Testi del 33 congresso di Lutte Ouvrière (da "Lutte de classe" n 77)
dicembre 2003

La constatazione della ripresa dell'economia americana spinge i commentatori più beati ad annunciarne gli effetti positivi per l'economia mondiale. Ma, negli stessi Stati-Uniti, questa ripresa si manifesta solo dal terzo trimestre 2003 dopo un lungo periodo di recessione. E non c'è nessuna garanzia che duri. Inoltre, questa si fa in parte a spese delle potenze imperialiste europee della zona euro. Il tasso di cambio dell'euro in rapporto al dollaro è aumentato quasi del 20% in un anno (con delle punte che oltrepassano il 30% in certi momenti). Ciò rende le merci europee ben più care sul mercato americano e abbassa il prezzo delle merci americane in Europa, quindi sfavorendo le esportazioni europee e favorendo quelle degli Stati-Uniti.

Nella prima metà dell'anno in ogni caso, la produzione è diminuita in Francia come in Germania o in Italia ed ha stagnato nell'insieme della zona euro. I periodici annunci di ripresa rappresentano più una speranza che una realtà. Al di là delle etichette politiche, tutti i governi d'Europa portano avanti una politica destinata a preservare gli interessi dei loro gruppi capitalistici a scapito dei salariati.

La valanga di misure anti-operaie non è una caratteristica del solo governo di destra Chirac-Raffarin, ma anche del governo "socialista" di Gerhart Schroeder in Germania. Dappertutto, i governi riducono, relativamente o in assoluto, i crediti ai servizi pubblici e alle spese sociali. Dappertutto se la prendono con i pensionati, con i sussidi di disoccupazione e più generalmente con tutte le spese statali che permettono ai più poveri di non sprofondare nella miseria. Ma, nello stesso tempo, col pretesto di rilanciare gli investimenti, si favoriscono i profitti padronali e, col pretesto di rilanciare il consumo, si diminuiscono le tasse delle classi più ricche. Anche nei paesi dell'Europa occidentale, che sono tra i più ricchi del mondo, la situazione delle classi lavoratrici continua a degradarsi.

Questa degradazione della situazione è ovviamente ancora più grave nella maggioranza povera della popolazione del pianeta. Il rapporto mondiale sullo sviluppo umano 2003, pubblicato sotto l'egida dell'Onu, stima a 827,5 milioni il numero di persone sotto-alimentate su scala mondiale. Interi continenti sprofondano nella povertà.

I paesi dell'America Latina non riescono ad uscire dalla crisi iniziata nel 2001. Anche l'Argentina, uno dei paesi meno poveri del sotto-continente, non riesce ad uscire dalla situazione creata dal crollo del sistema finanziario e dalla caduta considerevole della sua produzione. La situazione delle classi povere è ancora più difficile nell'America andina meno sviluppata. Secondo la banca interamericana di sviluppo, "220 milioni di latino-americani vivono in una situazione di precarietà alimentare, di cui 100 milioni nell'indigenza totale".

In Africa, le conseguenze del saccheggio dell'economia da parte delle società occidentali e del livello catastrofico della disoccupazione nelle città dove si accumulano le popolazioni scacciate dalle campagne, sono aggravate ancor più dai prelievi dei signori della guerra che si contendono il potere.

Gli economisti vantano ciononostante i progressi spettacolari della Cina dopo la sua reintegrazione, ancora incompleta, nel sistema capitalistico mondiale. La Cina e le sue immediate vicinanze (Taiwan, Singapore, Corea del Sud) registrano, in effetti, un tasso di progressione dell'8% che contrasta con la stagnazione generale.

Ma, oltre al fatto che nessuno può garantire che queste sviluppo perdurerà, ciò poggia su salari particolarmente bassi e sull'aumento dello sfruttamento delle masse lavoratrici. Lo sviluppo capitalistico febbrile di qualche grande città cinese ha come contropartita spaventosa la miseria nelle campagne. Ed è precisamente questa miseria che spinge verso le città le masse povere, riproducendo su scala più grande gli inizi del capitalismo in Inghilterra. Il rafforzamento numerico del proletariato concentrato nei tuguri delle immense città, espressione degli sconvolgimenti provocati dal capitalismo, conduce a situazioni esplosive. Affinché queste possano sboccare nella prospettiva di un cambiamento sociale, è necessario che rinasca, tra i lavoratori di questo paese, un movimento comunista rivoluzionario.

Sul piano politico, l'evento maggiore dell'anno è stato l'aggressione degli Stati-Uniti, affiancati dalla Gran Bretagna, contro l'Iraq. Abbiamo denunciato questa guerra per il suo carattere imperialista. Ma l'occupazione che la prolunga non lo è meno. E' significativo il fatto che l'Onu, che non ha voluto sostenere la politica americana contro l'Iraq, appoggia ciononostante l'occupazione. La Francia e la Germania, che hanno contestato la legittimità della guerra americana, accettano comunque l'occupazione militare dell'Iraq, e si contentano di evocare la necessità di una soluzione politica.

L'occupazione americana non porta all'Iraq né la pace, né la sicurezza, né un regime democratico e ancora meno un miglioramento della situazione della maggioranza della sua popolazione. Le autorità di occupazione non sono neanche capaci di rimettere in funzionamento le infrastrutture indispensabili, distrutte dai loro bombardamenti, come per esempio la distribuzione dell'acqua o dell'elettricità.

Invece di assicurare un ordine americano, l'intervento militare ha provocato soprattutto una situazione di anarchia. Ignoriamo chi siano quelli che compiono attentati contro le truppe americane -partigiani di Saddam Hussein, elementi del vecchio apparato dello Stato o islamisti di diverse obbedienze ?- come ignoriamo la loro influenza nel paese. Ma salta agli occhi il fatto che le truppe americane, così efficaci nella guerra lampo, sono incapaci di assicurare la gestione del paese o della propria sicurezza.

E pertanto è evidente che le azioni terroristiche, di cui d'altra parte la popolazione irachena è la principale vittima, non riusciranno di per se a costringere l'esercito americano a partire. Ciononostante sette mesi di occupazione hanno fatto tra i soldati americani più vittime della guerra stessa. L'opinione pubblica americana sembra cominci a prendere coscienza di questa realtà. Se ciò conduce allo sviluppo di un movimento di contestazione, questo può costringere i dirigenti degli Stati-Uniti a ritirare le loro truppe dall'Iraq.

L'aggressione contro l'Iraq ha messo in luce delle divergenze tra potenze imperialiste. Le potenze imperialiste di seconda zona quali la Francia e la Germania denunciano l' "unilateralismo" degli Stati-Uniti e gli oppongono il "multilateralismo". Dietro questo gergo, c'è la pretesa di queste potenze imperialiste di seconda zona di farsi associare alle decisioni dell'imperialismo americano e di farne beneficiare i loro propri gruppi capitalistici.

Ma i dirigenti politici dell'imperialismo americano non sono certo più "unilateralisti" di quanto non lo siano stati all'indomani della seconda guerra mondiale quando, forti della vittoria e della loro potenza economica e militare, gli Stati-Uniti dettavano la loro politica al blocco occidentale. Né lo sono più che durante la seconda metà del XX secolo quando l'esistenza dell'Unione Sovietica aveva fatto coesistere due blocchi opposti. Ma, all'epoca, gli Stati-Uniti invocavano la "minaccia sovietica" per imporre il silenzio nei ranghi. E i momenti in cui le contraddizioni inter-imperialiste hanno avuto l'occasione di manifestarsi sono rari, come quando De Gaulle decise di ritirare la Francia dagli organismi militari della Nato.

Malgrado l'Unione Europea, le potenze imperialiste dell'Europa non hanno la statura per far fronte agli Stati-Uniti. In caso di conflitto con gli Stati-Uniti, al contrario, è l'unità dell'Europa ad essere minacciata. Anche le divergenze diplomatiche, tutto sommato modeste, al momento della guerra contro l'Iraq, tra gli Stati-Uniti e certi imperialismi europei, in primo luogo la Francia, hanno rischiato di far dislocare l'Unione Europea. Non solo le truppe britanniche hanno partecipato a fianco delle truppe americane ad un'operazione militare che la Francia e la Germania hanno disapprovato, ma, per di più, molti dei paesi dell'Est che aderiranno nel 2004 all'Unione Europea hanno preso posizione per gli Stati-Uniti.

Anche se i fautori più convinti dell'unione dell'Europa tra le forze politiche della borghesia continuano a spingere nel senso di una costituzione europea, un testo costituzionale, pure se accettato da tutti, avrebbe un peso ben insufficiente per controbilanciare le divergenze di interessi, o addirittura le rivalità tra le potenze imperialiste dell'Europa.

La ragione per cui il testo di questo progetto di costituzione è stato finalmente accettato da tutti i governi sta precisamente nel fatto che non introduce alcuna rigidità nel campo delle relazioni tra potenze imperialistiche dell'Unione Europea. Quanto agli altri paesi, in particolare i paesi dell'Est che stanno aderendo, questi non hanno alcun diritto di esprimere le loro reticenze. Il progetto di costituzione consacra "l'Europa degli Stati" e non certo gli "Stati-Uniti d'Europa". Questo testo ufficializza inoltre un'Europa a piu' velocità, che permette ad un gruppo di Stati di stabilire relazioni più intense tra di loro che con altri Stati dell'Unione. Ciò che esiste già attualmente : la "zona euro" include solo dodici Stati dell'Unione Europea su quindici.

Ancora più numerosi sono i casi di "cooperazione rafforzata" tra certi Stati dell'unione e non altri, nel campo dei grandi negoziati economici, della diplomazia o della politica di difesa.

L'esito delle recenti liti dei governi francese e tedesco con la commissione europea in merito al deficit di bilancio elevato di questi due paesi (rispetto ai criteri di Maastricht) ricorda che, in questa Europa dove gli Stati sono supposti essere uguali, alcuni sono "più uguali degli altri".

I discorsi "liberali" o "anti-statali" sono utilizzati dai governi d'Europa solo per giustificare il loro disimpegno crescente dai servizi pubblici. Ma i fondi risparmiati in questo modo a scapito delle classi popolari sono riversati dallo Stato nell'economia tramite sovvenzioni ed aiuti al padronato e tramite regali fiscali alla borghesia. Ed è precisamente nel momento in cui i governi, di Francia e Germania in particolare, tagliano i fondi sociali ed i crediti ai servizi pubblici, che i deficit dei bilanci aumentano nei due paesi fino al punto di sorpassare il 3% autorizzato dal trattato di Maastricht.

La commissione europea, così sensibile ai criteri di Maastricht quando si tratta di piccoli paesi, in questo caso si accontenta di qualche monito.

In realtà, se la stagnazione economica in Europa proseguirà, le borghesie imperialiste dell'unione continueranno a soprassedere ai criteri di Maastricht. A meno che non riescano ad imporre alle istituzioni europee di aiutare ancor più "l'industria europea", vale a dire il grande padronato. Un'evoluzione in questo senso è già percettibile. Ma, se le principali potenze imperialiste d'Europa, la Francia, la Germania e la Gran Bretagna in particolare, riescono ad imporre la loro volontà agli altri, gli è ben più difficile accordarsi sulla spartizione tra di loro.

Ufficializzando la pratica della "cooperazione rafforzata" tra alcuni Stati dell'unione, il progetto di costituzione legalizza anche l'associazione delle potenze imperialiste dominanti d'Europa in piccoli comitati per mercanteggiare tra di loro posizioni comuni che i piccoli Stati -in particolare i dieci paesi integrati recentemente- dovranno semplicemente accettare.

L'appartenenza all'Unione Europea non ha posto termine al dominio del grande capitale dell'Europa occidentale sui paesi dell'est europeo, ha solo regolamentato la rivalità tra predatori imperialisti.

Il loro progetto di costituzione non solo non è democratico rispetto ai popoli, ma consacra sul piano giuridico una realtà : l'assoggettamento ai tre principali imperialismi, tedesco, francese e britannico, delle piccole nazioni dell'Unione Europea.

Per quanto riguarda tale costituzione, noi ci siamo fondamentalmente contrari, non perché è europea, ma perché è borghese, vale a dire destinata a preservare la proprietà privata, lo sfruttamento ed il dominio della borghesia sulla società. Ma una costituzione europea non è né più né meno borghese di quella della Francia, e noi non dobbiamo scegliere tra le due costituzioni. Se il progetto di costituzione verrà sottoposto a referendum -ma a giudicare dalle reticenze di Chirac e del governo, non sembra la soluzione più probabile- noi inviteremo i lavoratori ad astenersi. Rifiutiamo di mescolare i nostri voti all'uno o all'altro campo della borghesia : quello che si pronuncia a favore di una costituzione europea e quello che la rifiuta per "sovranismo", di destra o di sinistra.

Ciò nonostante, l'Europa non si limita all'Unione Europea, anche se allargata fin da quest'anno a dieci Stati supplementari. La situazione non è per niente stabilizzata nei Balcani occidentali costituiti dall'Albania e dagli Stati risultati dalla decomposizione della Jugoslavia. La contestazione delle frontiere provvisorie mal stabilite e l'instabilità politica aggravano la situazione economica di questa regione, già sottosviluppata, dove la decomposizione statale e le guerre successive hanno aggravato la deindustrializzazione. L'Albania, il Kosovo, la Bosnia Herzegovina e la Macedonia praticamente non vivono che grazie ai fondi mandati dai lavoratori immigrati ad ovest e ad un'assistenza internazionale derisoria.

La situazione in alcuni Stati d'Europa risultati dalla decomposizione dell'Unione Sovietica è paragonabile. Certo, i tre paesi baltici stanno per essere integrati all'Unione Europea. L'Ucraina, al contrario, si è fatta sbattere la porta sulle dita, cosa che l'ha spinta a volgersi un po' più verso la Russia, alla quale continuano a legarla mille vincoli, resti dell'economia pianificata di un tempo. La Moldavia sprofonda in una miseria terribile. Quanto alla Bielorussia, non meno povera, questa subisce una dittatura infame. E sopravvive solo grazie alla sua parziale integrazione alla Russia.

Non solo la parte orientale dell'Europa è esclusa dall' Unione Europea ma di più, le frontiere dell'Unione Europea, che passano ormai ad est delle ex-democrazie popolari, tagliano reti di scambi umani e commerciali tradizionali e aggravano in questo modo la povertà.

In Russia, la preparazione delle elezioni legislative per la fine del 2003 ha aggravato la guerra tra clan politico-finanziari. L'arresto recente di Khodorkowsky, uno degli uomini più ricchi del paese, seguito dall'annuncio delle dimissioni del capo dell'amministrazione presidenziale, preannuncia una nuova prova di forza per il potere supremo. Chiaramente Putin considera, a torto o a ragione, che il suo potere è abbastanza consolidato da permettergli, appoggiandosi sull'apparato del vecchio KGB, di poter allontanare una parte di quelli che, dietro Eltsin, hanno dominato gli apparati politici e sono stati i principali beneficiari del primo periodo di saccheggio della Russia. I commentatori, tanto versatili nelle loro opinioni che avidi di formulazioni sensazionali, annunciano una "ri-sovietizzazione" del regime russo. Altri, come un "politologo russo", rivelano che gli uomini dell'ex-KGB sono oggi "ancora più numerosi al Cremlino, al governo e nei ministeri che all'epoca di Stalin". Più significative dei commenti degli "specialisti" di ogni sorta sono la notevole fuga di capitali verso l'occidente e la discesa brutale della Borsa di Mosca. Bisogna credere che i cosiddetti "circoli di affari" di cui si diceva che da un anno o due riportavano una parte dei soldi portati in Occidente per cominciare ad investirli di nuovo in Russia, hanno sentito le loro garanzie svanire di colpo.

Bisogna distinguere il vero dalle esagerazioni di tutti questi commenti. Ma, dopo Berezovsky e Gussinsky, spinti verso l'esilio dorato, tocca ad un altro miliardario russo pagare per non aver capito che la sua posizione sociale dipende dall'appoggio del potere politico. Sono ancora gli apparati della burocrazia che dominano la Russia. Nonostante il fatto che alcuni dei "nuovi ricchi" della Russia si trovino ormai tra i cento primi posti della graduatoria delle fortune mondiali, la loro posizione economica e sociale non è stabilizzata. La loro ricchezza, che in genere è anche la ricchezza del clan burocratico che rappresentano, continua a dipendere in gran parte dalle rivalità tra clan burocratici e da rapporti di forza variabili.

Appoggiandosi sull'apparato del KGB, Putin ha saputo abilmente sfruttare l'odio che la maggioranza della popolazione russa nutre verso questi "nuovi ricchi" il cui rapido arricchimento è apertamente legato al saccheggio delle ricchezze del paese, vale a dire all'impoverimento della maggioranza della sua popolazione. Ciò nonostante questo non significa che l'arresto di Khodorkowsky e il sequestro annunciato della maggioranza delle azioni del trust petrolifero Iukos annuncino "la liquidazione degli oligarchi in quanto classe" che Putin aveva promesso nel 2000, parafrasando Stalin a proposito dei kulaki. Più probabilmente l'apparato dell'ex-KGB considera che è capace di appropriarsi una maggior parte della torta che all'epoca di Eltsin in cui si sono create le stravaganti fortune degli "oligarchi" odierni.

Se, grazie all'aumento del prezzo del petrolio, di cui la Russia resta il primo esportatore, la situazione economica è un po' migliorata durante l'anno scorso, il prodotto interno lordo della Russia non ha ritrovato il suo livello di dodici anni fa, quello del 1991.

Sprovviste da molti anni del nemico sovietico, le potenze imperialiste non hanno per questo rotto col militarismo e non hanno ridotto le spese militari. Al contrario, queste non hanno mai avuto una parte tanto importante nel budget di tutte le potenze imperialiste. Per il terzo anno consecutivo, il budget della difesa degli Stati-Uniti è aumentato del 10%. Nel progetto di budget 2004, supererà la somma allucinante di 400 miliardi di dollari, senza neanche considerare l'aumento di 63 miliardi di dollari deciso a causa della guerra contro l'Iraq. Le altre potenze imperialiste non sono certo in grado di sostenere questo ritmo. Ciò nonostante, il budget della difesa è aumentato, in Francia, del 13% tra il 2000 ed il progetto di budget 2004.

Il militarismo è una tara congenita dell'imperialismo e non ha bisogno di nemici per essere messo in atto dagli Stati.

Tale politica militarista è portata avanti in nome della sicurezza collettiva. Ma, dall'implosione dell'Unione Sovietica e la fine della guerra fredda, 120 guerre sono scoppiate nel mondo, alcune tra Stati, altre all'interno degli Stati. Il numero dei morti di queste guerre che hanno insanguinato tutti i continenti, compresa la periferia dell'Europa (i Balcani, il Caucaso), è stimato a più di 8 milioni di persone, vale a dire un numero di morti appena inferiore a quello della prima guerra mondiale.

Anche quando le potenze imperialiste non sono direttamente implicate, lo è questo o quel loro gruppo industriale o finanziario desideroso di mettere le mani sulle ricchezze minerarie locali.

Uno dei conflitti più lunghi della nostra epoca, il conflitto israelo-palestinese che dura da più di mezzo secolo e dove la guerra interna è stata scandita da diverse guerre che coinvolsero alcuni paesi vicini, non ha trovato soluzione con la fine della divisione del mondo in due blocchi, così come non l'aveva trovata prima.

I governi israeliani successivi, invece di operare a favore della coesistenza delle due comunità israeliana e palestinese, con diritti uguali, in particolare il diritto di ciascuno ad uno Stato, ne hanno precluso, al contrario, ogni possibilità con la loro politica di oppressione. Dall'installazione del governo Sharon, questa politica di oppressione prende la forma del terrorismo di Stato sistematico contro i palestinesi, e di uno spezzettamento crescente del territorio autonomo palestinese tramite l'installazione di colonie. Il terrorismo di Stato d'Israele procura continuamente nuove reclute alle organizzazioni palestinesi che praticano il terrorismo individuale. E i due terrorismi scavano un fossato di sangue tra i due popoli che così si ritrovano in un vicolo cieco.

Le grandi potenze, gli Stati-Uniti in primo luogo, hanno i mezzi per obbligare il governo israeliano a cambiare politica. Lo Stato d'Israele sopravvive economicamente, politicamente e militarmente solo grazie al sostegno degli Stati-Uniti. Ma questi rifiutano di far pressione su Israele. Per questo i tentativi di accordo falliscono gli uni dopo gli altri. Dopo l'insuccesso degli accordi di Oslo, il cosiddetto "foglio di viaggio" per la pace conosce a sua volta la stessa sorte quest'anno. Il governo israeliano non si contenta di imporre al popolo palestinese condizioni da campo di concentrazione, che aggravano la miseria già grande della popolazione, e di far intervenire l'esercito israeliano frequentemente sul territorio palestinese, anche contro dei civili, ma continua a favorire l'installazione di nuove colonie e approfitta della loro esistenza per prendere territori supplementari a scapito dell'autorità palestinese.

L'installazione di un muro intorno alle terre appropriate dallo Stato d'Israele non può essere percepita dal popolo palestinese che come una provocazione.

Il rifiuto di tutti i governi successivi, dalla creazione dello Stato d'Israele in poi, di condurre nei confronti dei popoli arabi della regione una politica per conquistarli all'idea di una coabitazione fraterna, li ha resi completamente dipendenti dagli Stati-Uniti. E questi danno per scontato che Israele sia un alleato che non può cambiar campo.

La tensione perpetua nel Medio Oriente, catastrofica per le popolazioni interessate, compresa quella israeliana, è diventata un elemento dell'ordine imperialista.

Per quanto riguarda i rapporti di oppressione tra lo Stato d'Israele e il popolo palestinese, noi siamo solidali con quest'ultimo. Ma la politica nazionalista dei dirigenti palestinesi e delle organizzazioni palestinesi contribuisce, insieme alla politica di oppressione dello Stato d'Israele, a creare nella regione una situazione inestricabile, una delle più gravi mai verificatesi di quelle trattenute dalla dominazione imperialista sul mondo.

In America Latina, l'aggravamento della miseria alimenta esplosioni sociali di cui, successivamente, il Venezuela, l'Ecuador e, ultimamente, la Bolivia forniscono un'illustrazione.

L'esplosione sociale in Bolivia è stata sufficientemente potente da spazzare un presidente della Repubblica già odiato. Ciò nonostante, in assenza di organizzazioni che rappresentino i loro interessi e che dirigano in questo senso le esplosioni popolari, queste restano sterili. Ma la miseria alimenta anche la violenza criminale, il regno dei trafficanti e delle bande che aggiungono un'oppressione supplementare a quelle, numerose, già subite dalle classi sfruttate.

In Brasile, l'anno 2003 è stato il primo trascorso da Lula alla presidenza della Repubblica. I commentatori di sinistra avevano presentato, un anno fa, l'elezione di Lula come una vittoria delle masse povere. Un anno dopo, le masse povere di questo paese forse non hanno perduto tutte le loro illusioni, ma si rendono sempre più conto che questo era una truffa. Lula non può, quand'anche lo volesse, sottrarre alla miseria le classi lavoratrici del Brasile.

Per farlo, sarebbe necessario che il governo subordini l'attività economica all'obiettivo di migliorare la sorte delle classi povere, di creare posti di lavoro, di sostituire le baraccopoli con alloggi corretti, a buon mercato, di sviluppare il sistema sanitario e d'educazione, ecc. Ciò significherebbe inevitabilmente toccare i privilegi e le fortune della borghesia locale come della borghesia internazionale. Lula non ne ha assolutamente l'intenzione. Coloro che, fino all'estrema sinistra, affermavano il contrario, hanno semplicemente contribuito a seminare illusioni e strozzare un po' più la classe operaia di questo paese.

Il saccheggio imperialista dell'Africa nera continua ad impoverire questo continente. Gli Stati creati dalle vecchie potenze coloniali, minati dalla corruzione e dalle rivalità di potere, sono in uno stato di decomposizione più o meno avanzata nella maggior parte dei paesi d'Africa. Alcuni sono sotto l'assistenza delle vecchie metropoli coloniali, altri come la Somalia sono abbandonati alla loro sorte.

Nel Congo-Kinshasa, uno dei paesi più estesi dell'Africa, e anche uno dei più ricchi per il suo sottosuolo, l'autorità dello Stato si limita alla capitale e alle regioni circostanti, a volte neanche a quelle. Il resto del paese è in preda ai signori della guerra o abbandonato all'anarchia sanguinosa dei conflitti etnici. I signori della guerra si sforzano di tirar profitto quanto prima dalle ricchezze naturali e cercano di far comunella con dei gruppi industriali. In queste condizioni, la ricchezza del sottosuolo è diventata una maledizione per i due Congo, come per il Liberia, la Sierra Leone e ben altri Stati. Il solo risultato di tale ricchezza è che i capi delle bande armate in guerra fra di loro hanno abbastanza soldi per procurarsi armi moderne per massacrare i popoli.

Il regno delle bande armate e le guerre perpetue impoveriscono la popolazione, i cui giovani, ed anche i bambini, sono trasformati in mercenari che prelevano sugli altri quanto necessario per sopravvivere. Una spirale di sangue è così innescata.

Nel Nigeria, il paese più popolato dell'Africa, l'apparente stabilità del potere centrale fa fatica a dissimulare lo spezzettamento del paese, con poteri locali corrosi dal fondamentalismo islamico nel Nord e dal controllo diretto dei grandi trust del petrolio al sud.

La Costa d'Avorio, in altri tempi il paese meno povero dell'ex-impero coloniale francese in Africa, "vetrina" della decolonizzazione francese, è oggi lo specchio di quanto succede dappertutto nel continente. Un anno dopo l'ammutinamento militare che ha portato alla divisione del paese in tre zone, di cui una soltanto è controllata dal governo, la sola cosa che si sia veramente stabilizzata è la violenza. Cercando nello stesso tempo di mantenere buone relazioni con i militari ammutinati, i dirigenti francesi hanno scelto di sostenere il regime di Gbagbo (tanto più che la zona controllata dal governo ufficiale è la più ricca di risorse naturali e di investimenti di capitali francesi). Gli accordi di Marcoussis presentati come l'inizio di un processo per ristabilire l'unità del paese, in realtà hanno favorito Gbagbo, dandogli il tempo di armarsi meglio. I discorsi tenuti attualmente dai dirigenti fanno pensare che il rilancio della guerra sia vicino. Ma, ancora prima che sia sparato il primo colpo di fuoco di questa nuova fase della guerra, questa fa continuamente nuove vittime, non tanto tra le bande armate che controllano le altre zone quanto all'interno stessa di ciascuna di esse. Nella zona controllata dal governo, quelli che vengono dal nord del paese e quelli che vengono dal Burkina o dal Mali vicini sono le vittime sistematiche dei ricatti dei militari e dei poliziotti. Sono umiliati e pestati, quando non sono addirittura vittime di linciaggi operati dai sicari del partito di Gbagbo. Nella popolazione del sud, questi non ha completamente perduto il piccolo credito di cui beneficiava prima del suo accesso al potere in quanto oppositore di Houphouët-Boigny e "uomo di sinistra" che ha contribuito alla creazione del primo sindacato, Dignità, non legato al potere dell'epoca.

Ormai al potere da tre anni, Gbagbo è stato incapace di migliorare anche di poco la sorte dei lavoratori delle città e di arrestare la degradazione delle condizioni di esistenza dei contadini, colpiti dal ribasso dei corsi del caffè e del cacao, pagati sempre meno dai grandi gruppi che dominano il commercio internazionale di questi prodotti.

E anche se Gbagbo si autorizza qualche dichiarazione "anti-imperialista", o meglio, più precisamente, "anti-francese", è solo col riprendere la demagogia etnicista dei suoi predecessori che riesce a conservare una certa capacità di mobilitazione di cui si serve per mostrare alla borghesia locale e al governo francese che lui è l'unico capace di mantenere un'apparente stabilità. Le conseguenze di questa degradazione sono gravi per la classe operaia che è composta in gran parte, nella stessa Abidjan, da burkinabesi e da originari del Nord, vittime di questa demagogia.

Nel corso dell'anno, l'esercito francese ha accresciuto i suoi effettivi presenti in Costa d'Avorio. Questo protegge gli interessi della borghesia francese, non certo della popolazione. Malgrado le loro pretese pacificatrici, si tratta di truppe di occupazione imperialista.

La prima condizione per ristabilire la pace sarebbe di arrestare la degradazione visibile delle condizioni di esistenza della popolazione lavoratrice, la cui causa principale è precisamente il controllo dei gruppi industriali e finanziari francesi in Costa d'Avorio. L'esercito francese non è uno strumento di pace, ma uno degli strumenti del dominio dell'imperialismo francese i cui interessi locali sono mal serviti da un esercito nazionale allo sbando.

Le truppe francesi devono essere ritirate dalla Costa d'Avorio, come da tutti i paesi d'Africa dove stazionano.

Mettendo le forze produttive del pianeta al servizio del profitto, accrescendo le ineguaglianze tra una minoranza di possidenti e le masse sfruttate, tra la classe dominante dei paesi ricchi e le masse popolari dei paesi poveri, cercando di imporre con le armi quanto il solo dominio economico non può apportare, alimentando le guerre locali, l'imperialismo mantiene l'umanità nella barbarie. Il sistema imperialista non può essere né riformato né migliorato. Non può che essere distrutto dalle sue fondamenta tramite la distruzione del modo di produzione capitalistico. In ultima istanza, l'avvenire dell'umanità dipende, da molti decenni, dalla capacità del proletariato mondiale, l'unica forza sociale suscettibile di distruggere il sistema capitalistico, a ritrovare la coscienza del suo ruolo storico. Ciò significa la rinascita di partiti comunisti rivoluzionari su scala internazionale. Rapporto sulla situazione interna

31 ottobre 2003