Situazione internazionale

Εκτύπωση
Da "Lutte de classe" n° 69 (Il 32° congresso di Lutte Ouvrière)
9 dicembre 2002

Durante tutto l'anno la situazione internazionale è stata dominata dall'attività febbrile, militare e diplomatica, dell'imperialismo americano.

Sin dai primi giorni che seguirono gli attentati dell'11 settembre, gli Stati-Uniti si sono fatto dare carta bianca dall'ONU per agire come lo volevano. Hanno deciso in modo unilaterale la guerra contro l'Afghanistan, e non hanno lasciato altra scelta ai paesi vicini, tra cui il Pakistan, e alle altre potenze imperialiste, che di allinearsi alle loro decisioni. L'anno ha cominciato con l'installazione in Afghanistan di un governo diretto da Hamid Karzai, vassallo degli Stati-Uniti e vicino al trust del petrolio Unocal, molto interessato alla costruzione di un oleodotto attraverso l'Afghanistan, e finisce con la preparazione di una nuova guerra contro l'Iraq.

Abbiamo scritto per il congresso dell'anno scorso che "gli attentati di New York e Washington, le manovre diplomatiche e le operazioni militari che ne sono conseguite non costituiscono una svolta nelle relazioni internazionali, ma sono un rivelatore".

Appoggiandosi sull'emozione creata nell'opinione pubblica americana da questi attentati, prolungandola con un clima di guerra prima contro l'Afghanistan, poi contro l'Iraq, George Bush è riuscito a rinforzare e consolidare un potere presidenziale che risultava da un'elezione dubbia.

Ma al di là della sua propria persona il clima d'unione nazionale permette ai dirigenti degli Stati-Uniti di esprimere apertamente l'aggressività di una grande potenza imperialista sia sul piano politico che diplomatico e militare.

Lo stesso giorno in cui si svolsero, abbiamo detto tutto il male che pensavamo degli attentati dell'11 settembre. Ci siamo totalmente opposti ai metodi terroristici che, anche quando fanno riferimento alle masse popolari, hanno sempre lo scopo al meglio di ingannarle e, in generale, di imporre loro una dittatura.

Per di più, il movimento fondamentalista islamico, responsabile degli attentati dell'11 settembre, ha obiettivi particolarmente reazionari, sia nel campo politico che nel campo sociale. I gruppi che ne fanno parte, da Bin Laden al GIA algerino, sono nemici mortali del proletariato.

Un anno dopo gli attentati, si vede peraltro, non solo che non hanno indebolito l'imperialismo americano, ma addirittura hanno permesso ai suoi dirigenti politici di ottenere da parte della loro popolazione un sostegno che prima non si potevano neanche sognare.

L'enorme strumentalizzazione dell'opinione svoltasi negli Stati-Uniti attorno alla "lotta contro la minaccia terrorista" è smisurata rispetto a ciò che questa minaccia potrebbe realmente rappresentare. Ma non è solo l'opera della squadra politica al potere, è condotta da tutte le grandi forze politiche del paese, da tutti quelli che fanno l'opinione, da tutti i mass media.

Tutta la politica degli Stati-Uniti viene presentata oggi come risultante direttamente o indirettamente dalle necessità della battaglia della democrazia contro il fanatismo, del bene contro il male, della civilizzazione contro l'arretramento, mentre, dietro alle giustificazioni moraleggianti, c'è solo la continuazione della politica imperialista portata avanti per assicurare il controllo dei grandi gruppi industriali e finanziari sull'economia del mondo.

Gli Stati-Uniti sono stati i primi ad esercitare il terrorismo su larga scala. Anche solo dalla Seconda guerra mondiale in poi, la loro storia è piena di atti di terrorismo compiuti per impressionare i popoli che vogliono subordinare, cominciando dalle bombe atomiche su un Giappone già vinto o dai bombardamenti massicci delle popolazioni civili in Germania.

Rispetto più specificamente al terrorismo dei movimenti fondamentalisti islamici, bisogna anche ricordarsi del ruolo degli Stati-Uniti nel rafforzamento di questa galassia di movimenti reazionari per fare da contrappeso alle cosiddette correnti progressiste o filosovietiche, e dell'aiuto dei loro servizi segreti ai gruppi terroristi. Una scrittrice indiana, opposta alla guerra contro l'Afghanistan, ha potuto parlare di "Bin Laden, segreto di famiglia dell'America".

La demagogia attorno alla "lotta contro il terrorismo" e alla lotta contro "gli Stati fuorilegge" ha cominciato a sostituire la demagogia contro la "minaccia sovietica" sin dalla scomposizione dell'Unione sovietica. Ma questa demagogia è stata portata all'apice dopo gli attentati dell'11 settembre.

Già era un inganno brandire la minaccia sovietica ai tempi della Guerra Fredda, in quanto la burocrazia sovietica non aveva nessuna voglia di impegnarsi in un conflitto decisivo contro il campo occidentale. Per di più, giustificare col "pericolo sovietico" l'intervento degli USA in un gran numero di conflitti in cui solo gli interessi dei loro trust -o addirittura di uno solo come nel 1954 nel Guatemala- sembravano minacciati, era già una menzogna grossolana.

Ma la potenza che rappresentava l'Unione sovietica, anche ai tempi in cui i suoi dirigenti insistevano sulla loro volontà di "coesistenza pacifica", il loro gioco di alleanze con paesi che prendevano le distanze da Washington, l'esistenza di zone di tensioni o addirittura di conflitti armati locali tra i due blocchi davano qualche verosimiglianza alla demagogia dei dirigenti statunitensi.

Invece può sembrare surrealista pretendere che Stati come l'Iraq, l'Iran, la Libia o la Corea del Nord possano rappresentare un pericolo per gli Stati-uniti, o sostituire la minaccia di Al Qaeda a quella del defunto "blocco sovietico" per giustificare un programma di spese militari senza precedenti.

Ma la demagogia fa tanto più effetto in quanto all'evocazione dell'immagine delle due torri del World Trade Center crollate o del Pentagono in fiamme si aggiunge un clima alimentato da una pressione tanto politica quanto giuridica o mediatica che, per molti aspetti, fa pensare agli anni del maccarthysmo.

La politica degli Stati-Uniti è sempre stata l'espressione dei loro interessi imperialisti. Ai tempi dell'esistenza del blocco sovietico, i propri interessi degli Stati-Uniti si collegavano con il loro ruolo di custode dell'ordine imperialista nel suo complesso.

Dopo il fallimento della guerra contro il Vietnam e l'impatto sull'opinione pubblica del costo umano di questa guerra per gli stessi Stati-Uniti, è stato però più difficile ai loro dirigenti, per tutto un periodo, ottenere un consenso da parte della loro popolazione per una politica esterna aggressiva e per impegnarsi in azioni militari, in particolare quando ci potevano essere morti americani.

Durante il primo intervento in Iraq, gli Stati-Uniti avevano ancora provato il bisogno di presentare il loro intervento come l'espressione della volontà della "comunità internazionale". L'avallo dell'ONU per dare credito a questa versione era destinato più all'opinione pubblica interna che all'opinione pubblica mondiale.

Nell'ex Iugoslavia, dove l'intervento americano poteva però prendere più facilmente la parvenza di un'intervento umanitario, gli Stati-Uniti hanno scelto di intervenire in nome dell'Alleanza Atlantica (NATO).

Oggi, durante la preparazione della guerra all'Iraq, Bush ha detto e ripetuto che, con l'accordo dell'ONU o meno, se ritiene utile di fare scoppiare la guerra, lo farà. Le sceneggiate alle Nazioni Unite, in cui Chirac è stato tanto fiero delle sue prestazioni, sono destinate a fare guadagnare tempo ai dirigenti americani, forse a nascondere le loro proprie esitazioni sulla condotta da tenere, e non affatto a giungere ad una decisione collettiva. Forti della legittimità delle "guerra globale contro il terrorismo", gli Stati-Uniti non esitano più ad affermare in tutti i campi che ciò che è buono per loro è buono per il mondo.

E' di moda, in particolare negli ambienti politici delle potenze imperialiste di seconda classe, lamentare "l'unilateralismo" americano e rimpiangere che il crollo del blocco sovietico non abbia portato all'apparizione di un sistema di decisione multilaterale.

Dietro il barbarismo di queste parole, c'è il desiderio di queste potenze di secondo rango del mondo imperialista di partecipare alle decisioni riguardo all'ordine imperialista mondiale. Gli imperialismi francese, inglese o tedesco vorrebbero, come gli Stati-Uniti, che l'ordine imperialista si organizzasse in rapporto ai loro propri interessi. Ma non hanno la possibilità di imporlo. Volente o nolente, in un mondo regolato dai rapporti di forza, devono accettare di allinearsi alle scelte dell'imperialismo americano.

Sul piano economico, da quasi un secolo, l'economia americana è l'economia dominante del mondo.

La Seconda guerra mondiale ha definitivamente stabilito la sua preponderanza sulle vecchie potenze imperialiste d'Europa che si sono massacrate l'una l'altra nel corso di due guerre mondiali.

Finché esisteva l'Unione sovietica e, in una certa misura, il blocco politico che la circondava, una parte del mondo, pur subendo la pressione dell'economia imperialista, le sfuggiva parzialmente. Non è più il caso dopo il crollo dell'Unione sovietica.

Gli Stati-Uniti si sono serviti della loro potenza economica durante e dopo la seconda guerra mondiale per imporre all'economia imperialista, su scala mondiale, alcune regolamentazioni. Lo statalismo americano, destinato in un primo tempo a permettere al gran capitale americano di uscire dalla crisi e dalla depressione del 1929, fu prolungato verso il resto del mondo dominato dal capitale con un certo numero di organismi quali il FMI, la Banca mondiale, il Gatt, antenato del WTO, ecc... Dopo di essere stati gli artefici di una certa regolamentazione per rilanciare l'economia capitalista mondiale, gli Stati-Uniti sono tuttavia divenuti, a partire dagli anni settanta, i principali responsabili della deregolamentazione.

La fine delle riserve di caccia coloniali, poi la sparizione, progressiva o brutale, delle protezioni statali che alcuni paesi poveri avevano eretto, poi la caduta del blocco ex sovietico, hanno favorito i grandi trust multinazionali più potenti, di cui la maggior parte sono americani.

Negli anni sessanta, era di moda prevedere il declino della potenza americana. Si parlò successivamente o simultaneamente dei miracoli giapponese, tedesco o anche italiano. Ma nel corso dei trenta anni scorsi di crisi e di instabilità del sistema capitalista, l'imperialismo americano ha rafforzato la sua preponderanza rispetto alle altre potenze imperialiste e, ovviamente, rispetto all'insieme del mondo. Per preservare questa preponderanza, gli Stati-Uniti aggiungono all'aggressività esterna dei loro grandi trust e della loro diplomazia il protezionismo rispetto al loro mercato interno.

La potenza economica dell'imperialismo americano poggia innanzi tutto sul suo formidabile apparato produttivo, la sua posizione dominante in materia di ricerca scientifica e tecnologica, ma anche sul saccheggio della maggior parte del pianeta tramite questi trust che, con le loro filiali, stringono il mondo all'interno di una rete dalle maglie strettissime.

Ma di più, pur difendendo i suoi "interessi nazionali", cioè gli interessi dei suoi propri trust, il gran capitale americano agisce anche come mandatario del gran capitale del mondo intero.

Grazie alla loro potenza economica, grazie al ruolo del dollaro nell'economia mondiale, gli Stati-Uniti continuano ad attrarre i capitali delle altre potenze imperialiste e anche il denaro della borghesia dei paesi poveri, senza neanche parlare del denaro della droga o della mafia burocratico-criminale russa.

Proprio per questo, prendersela con l'imperialismo americano senza prendersela con l'imperialismo in quanto tale non è solo un modo di allinearsi alla sua propria borghesia imperialista: è anche stupido.

Pur rimanendo rivali, gli interessi degli imperialismi nazionali sono legati in modo inestricabile. I dirigenti dell'imperialismo americano sono tanto più incoraggiati a considerare che gli interessi nazionali del loro paese, cioè gli interessi dei loro trust, sono gli interessi del mondo imperialista stesso, in quanto questo corrisponde ad una realtà.

L'imperialismo economico si prolunga in un imperialismo militare. Malgrado la scomparsa del "nemico sovietico", la spesa militare americana raggiunge vertici che non aveva mai toccati ai momenti peggiori della "guerra fredda".

I finanziamenti della difesa nazionale americana previsti per l'anno fiscale 2003 rappresentano 379 miliardi di dollari, ossia un aumento del 10,7% rispetto all'anno precedente. Questa somma è superiore al cumulo delle spese militari delle quindici potenze militari che seguono gli Stati-Uniti, e dovrebbe crescere rapidamente fino al 2007, aprendo un vero abisso tra l'armamento americano e quello del resto del mondo. Gli aspetti economici e militari di queste spese sono strettamente collegati.

Le spese militari sono destinate ad assicurare la presenza militare degli Stati-uniti in un numero crescente di paesi del mondo. La guerra in Afghanistan in particolare è stata un'occasione per l'esercito americano di rafforzare la sua presenza nell'ex zona sovietica, nel Caucaso e in parecchi paesi dell'Asia centrale.

Ma queste spese militari sono vitali anche per il gran capitale americano. Alcuni dei maggiori trust di questo paese, dalla Boeing alla General Motors, alla Lockheed Martin, Northrop Grunman e molti altri, vivono per l'essenziale grazie alle ordinazioni del Pentagono. Le spese militari non permettono soltanto a questi trust di assicurarsi profitti tanto colossali quanto pagati in contanti; permette anche, grazie al mercato sicuro del loro proprio Stato, di rafforzare la loro posizione sul mercato mondiale. I trust europei, in particolare quelli legati all'armamento, hanno qualche ragione di temere di perdere progressivamente la clientela degli Stati delle loro vecchie zone d'influenza economica.

E' altrettanto significativa l'importante progressione della voce "ricerca e sviluppo" delle spese militari americane. In tutti i paesi imperialisti, il gran capitale è solito fare finanziare dallo Stato, e più precisamente dall'esercito, i suoi investimenti di ricerca. Poiché i capitali che ci sono dedicati negli Stati- Uniti sono molto più importanti, l'egemonia dell'industria americana, compreso nel campo della tecnologia, cresce senza tregua.

Sarebbe tanto meno utile quest'anno elencare tutte le zone di tensione, la cui lista è lunga, in quanto la politica aggressiva dell'imperialismo americano durante tutto l'anno non è stata tale da disinnescare le tensioni, bensì le ha aggravate e ne ha fatto nascere altre.

Il governo reazionario di Sharon in Israele ha potuto approfittare della politica americana per mettere fine ad ogni parvenza di trattativa con i Palestinesi e anche per rimettere in questione la stessa esistenza dell'autorità palestinese, caricatura di Stato insediata prima. E' mancato poco perché i dirigenti israeliani soppressero anche Arafat. Col paragonarlo a Bin Laden, distruggono metodicamente i pochi ed irrisori simboli del suo potere, con la complicità di Washington.

Anche in Afghanistan, l'intervento militare non ha stabilizzato la situazione. E dietro ad un governo pro occidentale a Kabul, i signori della guerra continuano a contendersi il paese.

L'esasperarsi della tensione tra India e Pakistan è anche un sottoprodotto della politica americana nella regione. E non è difficile prevedere che molti conflitti scoppiati dopo lo smembramento dell'Unione sovietica, nel Caucaso o nell'Asia centrale, si aggraveranno ancora con la presenza americana nella regione e l'associazione dei dirigenti locali al sistema di alleanze organizzato da Washington.

E' ancora più prevedibile il fatto che una guerra contro l'Iraq, se le gesticolazioni di Washington si prolungheranno con un'intervento militare in questo paese per abbattere Saddam Hussein, porteranno a delle conseguenze in tutta la regione, anche se non si può dire quali saranno. Al contrario, niente garantisce che la popolazione irachena, che subisce da tanto tempo la dittatura di Saddam Hussein, accoglierà per tanto le truppe americane come dei liberatori.

Quindi, nonostante la superiorità militare degli Stati-Uniti, niente garantisce che sarà una guerra rapida. E' anche quando la guerra sarà vinta, rimarrà la questione di sostituire Saddam Hussein senza provocare l'insurrezione delle minoranze kurde e sciite , come fu il caso dopo la guerra del 1991 in cui Saddam Hussein fece lo sporco lavoro che un'esercito americano d'occupazione avrebbe dovuto fare.

Inoltre è impossibile prevedere le conseguenze di una guerra tra gli Stati-Uniti e l'Iraq rispetto agli altri paesi arabi, in particolare nell'eventualità di una guerra prolungata. I regimi filoamericani della regione, dall'Arabia Saudita all'Egitto, "ballano su un vulcano", incastrati tra le esigenze degli Stati-Uniti e le aspirazioni dei loro popoli.

Perfino la Russia non manca di subire le ricadute della politica americana.

Il presidente della Russia si è anche servito, per minacciare un intervento militare contro la Georgia, dell'argomento per cui questo Stato sarebbe compiacente nei confronti dei "terroristi ceceni" che si sarebbero rifugiati sul suo territorio, mentre in realtà si tratta di rafforzare le posizioni russe rispetto all'"estero prossimo", cioè gli Stati sorti dallo smembramento dell'Unione sovietica. Putin ha trovato lì un incoraggiamento a fare la sua guerra in Cecenia, presentata in questa circostanza come uno dei campi di battaglia della "guerra contro il terrorismo internazionale". La presa d'ostaggi di Mosca, in cui Putin ovviamente denuncia responsabilità straniere, è apparsa come una conferma della necessità di questa lotta alla "minaccia terrorista".

La pax americana non è la pace, ma le guerre permanenti, per questa ragione ancora più fondamentale che il dominio imperialista sul mondo aggrava la miseria dappertutto, fa riapparire e aggrava problemi di cui si poteva sperare che fossero stati risolti dalla storia, come i conflitti tra micro nazionalità o tra etnie.

Non si può non parlare a quel proposito della Costa d'Avorio.

La rivolta militare in corso è l'espressione della scomposizione dell'apparato di Stato mantenuto artificialmente dall'ex potenza coloniale francese ma rovinato dalla corruzione e minato dalle rivalità che oppone gli uni agli altri i parecchi candidati all'eredità dell'ex dittatore Houphouët-Boigny.

L'affrontamento tra la frazione dell'esercito rimasta finora dalla parte del presidente attuale Gbagbo e i ribelli ha però innescato il meccanismo infernale delle opposizioni etniche che sono state utilizzate demagogicamente, da molti anni, e quindi rafforzate, da tutti i candidati rivali all'esercizio del potere centrale. In parecchi posti nel paese, lo scatenamento della violenza etnista, spesso dovuto alla polizia o allo stesso esercito di Gbagbo, o anche a bande armate al servizio del regime, ha dato luogo a linciaggi, qualche volta a massacri collettivi. L'esercito francese è intervenuto per separare i due pezzi opposti dell'apparato di Stato, e non per opporsi alle persecuzioni. L'unica preoccupazione dell'imperialismo francese è di evitare lo scoppio definitivo dell'apparato di Stato che difende gli interessi francesi contro il popolo avoriano.

Per questo i rivoluzionari non possono che rivendicare il ritiro immediato delle truppe francesi dalla Costa d'Avorio, come tra l'altro da tutte le ex colonie dove sono state mantenute basi militari francesi.

Alla fine del nostro testo congressuale dell'anno scorso, constatavamo che nella situazione internazionale, a contestare l'ordine mondiale c'erano principalmente forze reazionarie. Concludevamo : "l'unica alternativa è la rinascita del movimento operaio rivoluzionario, per aprire all'umanità una prospettiva che non sia la manifestazione sempre rinnovata ed allargata della barbarie. Le prospettive fondamentali dipendono dalla capacità della classe operaia a giocare di nuovo sulla scena internazionale il ruolo che giocò nel periodo dell'ascesa mondiale del socialismo nella seconda metà del 19° secolo o dopo la Rivoluzione russa del 1917." Non possiamo che riprendere questa conclusione.

25 ottobre 2002